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Nel contribuire ad accompagnare il ragazzo che ha deciso di costituirsi dopo essere evaso dal “Beccaria” mi è venuta alla mente una riflessione di Aldo Moro sul valore della pena: “Se (la pena ndr) la si concepisce, come credo debba esser concepita, come un fenomeno morale, come una riproposizione che si faccia di fronte al soggetto del valore ch’egli ha smarrito con la sua azione illecita, la riproposizione della permanente validità del bene, allora non si può pensare che vi sia veramente qualche cosa che incide in modo indebito nella persona umana”.
In questi giorni ho pensato a Moro - e agli altri padri costituenti a cui mi sento culturalmente più vicino - che hanno scritto l’articolo 27 della nostra Costituzione. Quelle donne e quegli uomini che avevano patito sotto il regime fascista, avevano trovato e identificato nella pena il suo valore rieducativo. Ma cosa vi è di rieducativo in una struttura carceraria lasciata letteralmente sola? E ancora, quanto il carcere può essere educativo per i ragazzi e quanto invece si dovrebbe ricorrere ad esso il meno possibile privilegiando altri percorsi?
Non vi è da scomodare Voltaire nel ricordare che un Paese si misura per il livello delle sue carceri. L’Italia, se per questo, è già stato condannata dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo più e più volte. Ci ricordiamo delle strutture carcerarie quando avvengono fatti eclatanti come evasioni e rivolte. Poi spegniamo i riflettori. E ci affidiamo al lavoro, spesso improbo, del personale carcerario, sotto organico, e a quanti come i volontari delle diverse associazioni (quali ad esempio Antigone) e i cappellani offrono un aiuto e una vicinanza preziosissima.
Don Claudio Burgio, il cappellano del Beccaria che ha raccolto la pesante eredità di Don Gino Rigoldi, ha posto un tema che trovo decisivo. Cito da una sua intervista a Avvenire “ai ragazzi mancano figure di riferimento su cui poter fare affidamento e con cui fare un percorso condiviso”. Penso sia questo un tema nodale. Lo penso pure da genitore. Il mio figlio più grande ha pochi anni meno del ragazzo che ho accompagnato in Questura a Milano e che ha deciso di riconoscere l’errore fatto. Penso che alle ragazze e ai ragazzi che popolano il Beccaria - come gli altri istituti di pena minorili – manchino proprio figure di riferimento che spesso non hanno trovato nei loro contesti di provenienza.
Il turn over continuo di educatori e agenti penitenziari non aiuta. Non è poi possibile creare socializzazione, investire sul suo straordinario valore, il valore del “legame”, che è, a mio parere, la base del cammino rieducativo. Rieducazione che passa per educazione e formazione. A quelle ragazze e a quei ragazzi deve essere data la possibilità di immaginarsi - e realizzare - un futuro. Come? In particolare attraverso il lavoro e l’indipendenza.
Un esempio viene proprio dall’interno del Beccaria ove opera una cooperativa - Cidiesse - che da anni non solo insegna una professione - i quadri elettrici complessi che realizzano si trovano in aziende come Ferrari, Bracco e altre - ma agisce a fianco dei giovani per aiutarli a costruire prospettiva di vita. Quando i ragazzi si trovano al “fine pena” possono proseguire il loro percorso formativo fuori. Il guaio è che non sempre i tempi della legge camminano allo stesso modo con i posti esterni disponibili. Succede perfino, e me lo ha evidenziato il Presidente della Cooperativa, che qualche ragazzo chieda di non essere scarcerato finché non si liberi un posto presso la struttura esterna per così completare il percorso formativo.
È necessario allora un maggiore impegno perché si creino sempre più occasioni di lavoro e formazione professionale altamente qualificata all’interno delle carceri. Penso che una Regione debba stimolare e promuovere al massimo l’impegno formativo professionale in questi contesti. La formazione professionale è uno dei compiti più importanti attribuiti alle Regioni al pari della sanità e del trasporto pubblico locale. La formazione professionale può essere proprio una leva per arrivare alla rieducazione del condannato secondo il principio costituzionale.
Ma la formazione professionale fine a sé stessa non basta. Serve stabilità nelle figure di riferimento che affiancano i ragazzi per aiutarli a crescere. E far capire loro che il carcere è una parentesi nella loro vita per diventare uomini e donne migliori. E noi, tutti noi, dobbiamo una volta per tutte smettere di ricordarci del carcere solo per i fenomeni eclatanti.