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In uno scritto su Il Dubbio, l’amico Edmondo Bruti Liberati lamenta la mancata distinzione tra responsabilità politica per fatti eticamente riprovevoli e responsabilità penale. Si assisterebbe, di fatto, ad una scomparsa della responsabilità politica, con la conseguenza, ad esempio, che le dimissioni di un ministro verrebbero sistematicamente subordinate ad un accertamento della responsabilità penale da parte della magistratura, anche quando ben potrebbero trovare autonomo fondamento in un comportamento penalmente irrilevante ma riprovevole in termini di etica pubblica e, quindi, di responsabilità politica.
Concordo sulla circostanza che responsabilità penale e responsabilità politica appartengano a ordini diversi. Quella politica è assai più estesa ed eventualmente riferibile, per i vertici, anche alle azioni dei subordinati in forza del rapporto gerarchico e, persino, alla scelta dei propri collaboratori. Quella penale deve tenere conto dei limiti costituzionalmente imposti dall’art. 27 comma 1 Cost., secondo cui «la responsabilità penale è personale», ossia sussiste solo per il fatto proprio.
C’è un punto però sul quale le nostre analisi divergono. A chi è imputabile la caduta della responsabilità politica? Bruti Liberati attribuisce la colpa alla politica che, incapace di sanzionare autonomamente questo genere di responsabilità, rinvia ogni decisione all’accertamento di reati da parte dell’autorità giudiziaria. Senza dubbio, la politica ha le sue colpe. Credo, tuttavia, che l’eclisse della responsabilità politica derivi, almeno in parte, dalla stessa magistratura; in particolare, da quella inquirente che tende a sovrapporre i due profili di responsabilità, allargando i contorni di quella penale sino ad ipotizzare reati là dove sussiste una responsabilità essenzialmente politica o amministrativa. Troppo spesso si dimentica che le disposizioni penali, specie a fronte di un diritto ipertrofico, devono soggiacere ad un principio di stretta legalità che precluda ogni lettura estensiva.
Il fenomeno, naturalmente, non riguarda tutte le fattispecie, ma quelle che, nell’interpretazione giurisprudenziale, più si prestano allo sconfinamento della responsabilità penale in quella politica o amministrativa. Penso alle imputazioni per abuso di ufficio, dove spesso è labile il confine tra le due responsabilità; o a certe imputazioni per omessa vigilanza sui subordinati, talvolta formulate con automatismi poco compatibili con il principio costituzionale della responsabilità personale, che esige sempre una responsabilità colpevole, da verificare in concreto, come affermato dalla Corte costituzionale ( sentenze nn. 364 e 1085/ 1988); e, per certi versi, anche al concorso esterno in associazione mafiosa, che la Corte europea dei diritti dell’uomo, senza batter ciglio, ha definito «une infraction d’origine jurisprudentielle». Spero che la definizione sia erronea; altrimenti, ci si dovrebbe interrogare su come possa un reato, nel quadro costituzionale, trarre “origine” dalla giurisprudenza anziché dalla legge. È probabile, d’altronde, che le frequenti assoluzioni per certi reati siano legate al proliferare di imputazioni per una responsabilità che l’avanzare del processo spesso dimostra appartenente più all’ordine politico o amministrativo che a quello penale.
La dilatazione dei reati in sede di esercizio dell’azione penale fornisce un alibi alla latitanza del potere politico nell’affrontare i temi del malgoverno su cui spesso interloquisce l’autorità giudiziaria; e, al tempo stesso, vittimizza gli imputati, pur colpevoli di condotte eticamente censurabili. In epoca di pan-penalizzazione la politica avverte come inutile fissare regole di comportamento etico, sanzionabili, ad esempio, con le dimissioni: all’espansione del penale corrisponde puntualmente la riduzione dell’eticamente riprovevole. Può così accadere che un deputato assolto, ma carico di gravi responsabilità politiche, sia “celebrato” in parlamento come martire dell’ingiustizia umana.
! Meno penale e più responsabilità politica o amministrativa!: l’imperativo non è solo depenalizzare; serve anche il self- restraint della magistratura nell’allestire le imputazioni, da mantenere negli stretti limiti della rilevanza penale. Citerò una frase di Georgina Dufoix, già ministro degli Affari sociali in Francia, accusata di omicidio colposo e poi assolta per il caso del sangue contaminato: « Je me sens profondément responsable; pour autant, je ne me sens pas coupable». Credo che il senso sia all’incirca questo: «Sono pronta a rispondere delle mie azioni in termini politici, ma non riconosco in esse alcuna colpa che cada sotto una qualificazione penale». “Responsabile, ma non colpevole” è la formula da quel momento divenuta celebre.
Resta da capire come si sviluppi questa espansione delle imputazioni oltre la sfera della stretta responsabilità penale. La risposta è: attraverso lo strumento di cui dispongono giudici e pubblici ministeri e che nessuno può loro togliere, ossia l’interpretazione della legge, di certo non sopprimibile all’insegna dell’assurdo slogan “la legge non si interpreta, si applica”. Nessun magistrato sarà così ingenuo da ammettere apertamente di avere disatteso la legge, ma motiverà le sue scelte, per arbitrarie che siano, sotto la rassicurante veste dell’interpretazione. È, nondimeno, innegabile che esista un limite, superato il quale l’interpretazione cessa di essere tale e si converte nell’atto “creativo” di una nuova disposizione, quindi nell’invasione della sfera riservata al potere legislativo. Se non vi fosse una cornice che circoscrive i significati attribuibili ad ogni disposizione, perderebbe senso il principio stesso di soggezione alla legge. Ora, mentre la magistratura con le sue garanzie di indipendenza è, nel complesso, protetta dalle interferenze del potere legislativo o esecutivo, contro le interpretazioni “creative” della giurisprudenza, che di fatto svolgono una funzione legislativa, non esistono rimedi se non quelli “interni”, destinati a chiudersi con l’intervento della Cassazione cui spetta l’ultima parola. L’unico correttivo di cui dispone il legislatore è l’interpretazione “autentica”, raramente praticata, mentre sarebbe opportuno rivitalizzarla istituendo un organismo parlamentare di vigilanza sulla giurisprudenza.
Dei tre poteri dello Stato il più forte è, in realtà, il potere giudiziario, a dispetto della Costituzione che lo qualifica come “ordine”; e in eccezionali contingenze storiche la sua ” forza” si è anche rivelata utile. È ciò che, secoli addietro, aveva splendidamente illustrato Jules Michelet, il grande storico della Rivoluzione, deplorando la mancata riforma dell’ordinamento giudiziario: «Ogni potere ha bisogno del potere giudiziario; esso, al contrario, fa a meno degli altri. Datemi il potere giudiziario; tenetevi le vostre leggi, le vostre ordinanze, tutto quel mondo di cartacce; io mi incarico di far trionfare il sistema più contrario alle vostre leggi».