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CHIARA VALERIO - SCRITTRICE
C’era una volta la fiera del libro, una cattedrale laica in cui celebrare la libertà di pensiero e il culto dei diritti. Eppure, nel caso di Leonardo Caffo - il filosofo accusato di maltrattamenti nei confronti dell’ex compagna che avrebbe dovuto tenere una Lectio sull’anarchia, - l’autonominato comitato di salute pubblica ha deciso di scendere in campo con la solennità di un tribunale medievale, spingendo il dibattito da un piano intellettuale a una gogna virtuale.
Così, al grido di “presunzione di innocenza, ma non troppo”, la partecipazione del filosofo è stata contestata. Perché se è vero che le accuse sono molto gravi, è vero pure che sono tutte da provare. Il paradosso è evidente, quasi doloroso: non stiamo parlando di una folla armata di forconi ma di intellettuali, scrittori, sedicenti paladini del pensiero critico, pronti però a sacrificare sull’altare dell’indignazione preventiva uno dei principi più sacri del nostro diritto e della nostra Costituzione, quella tavola della legge che protegge le libertà fondamentali di noi tutti. Comprese quelle del professor Caffo.
La direttrice della fiera, Chiara Valerio, ha provato a ricordare che si è innocenti fino a condanna definitiva, un principio che dovrebbe valere sempre. Ma il suo appello è caduto in quel vuoto assordante che oggi occupa lo spazio tra il giustizialismo engagé e la furia popolare. E così, il libro del filosofo verrà presentato da altri, ma sotto un’ombra lunga, inquietante, che ci riporta a una domanda mai risolta: che ne è stato del rispetto per il diritto?
La nostra intellettualità, più che guardare a Calamandrei, sembra essersi persa in una parodia di giustizialismo che strizza l’occhio a Orbán. Qui non si tratta di scegliere tra il giusto e lo sbagliato, ma tra il diritto e la pretesa di un tribunale morale improvvisato, che decide chi può parlare e chi deve tacere.
La fiera del libro, da luogo di dibattito, rischia di diventare il teatro di un processo sommario. E così, tra un hashtag e un post indignato, la libertà d’espressione si ritrova sotto processo, condannata in contumacia da chi avrebbe dovuto difenderla.
Il diritto è una strada tortuosa, fatta di dubbi e garanzie, e non di scorciatoie e furori morali. Se la nostra intellighenzia non riesce a capirlo, forse il vero “processo” andrebbe celebrato proprio lì, tra le pieghe di una cultura che sembra aver smarrito se stessa.