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LaPresse
C’è stato un tempo in cui si scioperava per il salario, il pane, la dignità delle condizioni di lavoro. Evidentemente dobbiamo pensare che si trattava di un tempo “volgare”, impolverato, che sapeva di officina e di manifesti sbiaditi dal sole. Oggi invece, grazie ai nostri magistrati, lo sciopero si eleva, si nobilita, diventa metafisico: non uno sciopero per le buste paga (e come potrebbero?), né per le ferie negate, ma per la Costituzione, per lo Spirito del Diritto, per la sacra inviolabilità della toga, per il popolo (sic!) in nome del quale, e lo diciamo non senza un brivido, amministrano la giustizia.
Ed eccoli allora i magistrati, schierati in falange solenne. L’aria vibra di citazioni, di ammonimenti, di sguardi a favore di telecamera, perché il rito necessita di testimoni: i giornalisti, presenti e devoti, si prestano a questa ieratica cerimonia della lamentazione. Si ode, nell’austera piazza, echeggiare un nome antico, il nome di un avvocato, un costituente, un antifascista: è Piero Calamandrei. E nel suo nome si marcia, si protesta, si invoca l’immutabilità, la fissità, l’inossidabile stabilità dell’ordine costituito.
Dimenticano, però, che se oggi si discute di separare le carriere, non è per un capriccio d’architettura giudiziaria, bensì per liberare il giudice dal nodo che lo avvince al pubblico ministero, una vicinanza osmotica voluta, guarda caso, proprio dal fascismo che Calamandrei combattè. Dimenticano, con l’efficienza di una rimozione collettiva degna delle migliori strategie psicanalitiche, che le loro nomine non sono figlie del Cielo (o del merito) ma del Sistema delle correnti che spartisce poltrone, determina carriere e destini.
Insomma, quello di oggi non è stato solo uno sciopero ma un rito d’autocelebrazione, un’apologia della conservazione. I magistrati si sono auto affidati, con austero orgoglio, il ruolo di sentinelle della Costituzione; si battono contro un non meglio identificato invasore, e che si tratti di un legislatore regolarmente eletto, beh, poco importa. Certo è che tra un proclama e un anatema, hanno omesso un piccolo, irrilevante particolare: l’ultima parola spetta al popolo sovrano. Quel popolo che ieri, nelle piazze della protesta, non c’era.