Lettere private e pubbliche virtù. Qualche giorno fa, Il Dubbio ha pubblicato la lettera che il pubblico ministero catanese, Fabio Regolo, ha inviato privatamente alle parti di un processo, annunciando la richiesta di archiviazione e spiegando le motivazioni profonde di questa scelta.

Molti addetti ai lavori (magistrati, avvocati o anche solo osservatori esterni) l’hanno criticata aspramente. C’è chi lascia immaginare possibili - e forse indicibili - obiettivi personali o anche solo voglia di protagonismo: «Così lui diventa il magistrato buono e sensibile che manda le mail agli avvocati per giustificare la propria decisione, mentre tutti quelli che si limitano a parlare con i provvedimenti sarebbero per ciò stesso cattivi e insensibili». Per chi non conosce personalmente il dottor Regolo e nemmeno l’inchiesta in questione, risulta impossibile capire se ci sia qualcosa e cosa dietro le sue parole. Ma questa ignoranza aiuta a mettere a fuoco quello che emerge da una lettura senza dietrologie della sua riflessione, sulla quale si è giustamente soffermato su queste colonne il direttore Davide Varì.

Se il «metodo Regolo» fosse quello ordinario della magistratura italiana saremmo tutti più sereni nel farci giudicare. Purtroppo non è così, e ha ragione Varì a invocare migliori regole uguali per tutti e non solo ottime prassi che capitano solo ai fortunati. Tra i critici, c’è chi ha evidenziato un aspetto che sarebbe ingiusto sottovalutare. La lettera è certamente irrituale e non solo dal punto di vista statistico, è infatti facile immaginare che siano piuttosto rare iniziative di questa natura. Ma è irrituale anche perché, pur non entrando nel merito delle ragioni che l’hanno indotto a chiedere l’archiviazione e limitandosi a un interessante e molto apprezzabile “discorso sul metodo”, il dottor Regolo lo fa a latere di uno specifico procedimento giudiziario nel quale lui stesso è coinvolto come pubblico ministero. Per essere chiari, dopo questa lettera il gip che ha deciso se disporre o meno l’archiviazione sarà stato fatalmente un po’ meno “libero” nel valutare la richiesta. Si potrebbe obiettare che qui non si trattava di un intervento pubblico bensì di una lettera privata, ma com’è noto - e come dimostra la pubblicazione stessa su questo giornale - una comunicazione che coinvolge anche solo un terzo interlocutore non è mai privata.

Insomma, se la riflessione del dottor Regolo fosse avvenuta al di fuori di un procedimento giudiziario sarebbe stato certamente meglio. Ma la critica a Regolo per quanto corretta, non riduce il valore delle sue parole e anzi induce ad un ragionamento ulteriore. In questo caso, visto il tenore della riflessione, l’inopportunità indiscutibile di una lettera privata di un magistrato a margine di un procedimento pubblico di cui è parte, risulta molto meno grave rispetto ad altre riflessioni di magistrati, apparentemente di carattere generale e sganciate da singoli procedimenti, che invece incidono pesantemente sulle decisioni di specifici casi giudiziari. Che si tratti di corruzione o di contrasto alla mafia, per molti pubblici ministeri è irresistibile la tentazione di “raccontare” i provvedimenti invece che parlare attraverso di essi.

Ma quella che è davvero emblematica è la questione dei migranti in Albania. Tralasciando ogni valutazione sull’efficacia - molto dubbia - e sulla natura propagandistica - molto probabile - della politica governativa, restano gli aspetti giudiziari. In questo caso i magistrati non hanno parlato solo attraverso i provvedimenti (a mio avviso corretti) ma li hanno anche accompagnati con interventi “extragiudiziali” e considerazioni apparentemente di carattere generale sulla tutela dei diritti umani e soprattutto con considerazioni più squisitamente politiche. E allora, come nel caso del gip che dovrà giudicare la richiesta del dottor Regolo, i magistrati che devono decidere o hanno deciso sulle richieste di trattenimento in Albania dei migranti, sono più o meno “liberi” dopo aver letto gli interventi pubblici dei colleghi? In qualche circostanza, peraltro, gli stessi che avevano giudicato in procedimenti analoghi.

E più in generale, è sintomo di deriva autoritaria domandarsi come tenere distinta la soggettività del magistrato, insomma le sue opinioni personali, dall’esercizio della sua funzione che è quella di far parlare la norma e non il proprio pensiero? Il contributo al dibattito pubblico dei magistrati in tema di giustizia e diritti è fondamentale e sarebbe miope - se non proprio liberticida - vietarlo in nome di una fittizia apparenza di neutralità del magistrato, inesigibile in quanto inesistente in natura. Ma se proprio ci si deve lamentare, la lettera privata di Regolo non è il bersaglio giusto.