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L’allarme che imperversa sui giornali e nelle dichiarazioni di una parte ampia della politica italiana secondo i quali l’autonomia differenziata spaccherebbe il paese è infondato e retorico. Di più: è un allarme che allontana il dibattito e l’opinione pubblica dai veri problemi del paese rifilando ai cittadini una visione distorta della situazione, che invece è sempre più drammatica e pericolosa, in cui l’Italia si trova. Agitare la paura che l’autonomia possa spaccare il paese ha come unico effetto quello di nascondere che l’Italia è già stata, e con nettezza, spaccata in due pezzi tra il Centronord e il Mezzogiorno che si prolunga fino in Sicilia.
Italia spaccata in due non è, quindi, una valutazione politica. Ma il giudizio che emerge dalla durezza dei dati elaborati scientificamente dagli istituti di ricerca e verificabili da chiunque voglia informarsi invece di fare propaganda. Sia chiaro: in tutte le nazioni ci sono differenze al proprio interno, talvolta anche importanti, dovute a circostanze geografiche e storiche che i governi e la politica hanno il compito di attenuare e modificare, non sempre riuscendoci. Ma in Italia, da oltre mezzo secolo le politiche nazionali, tutte e nessuna esclusa, hanno lavorato in modo univoco a privilegiare una parte del paese, quella che per ragioni storiche e perfino geografiche (per esempio grandi pianure anziché territori tormentati) già si trovava in vantaggio, il Nord e il Centro Italia.
Ma facciamo un salto indietro. Era il 1972 quando Pasquale Saraceno, uno dei maggiori economisti dell’epoca, informò il ministro del Bilancio Giuseppe Pella che il divario Nord- Sud sarebbe stato azzerato entro il 2020, cioè entro mezzo secolo. Era il risultato di uno studio sulle tendenze verificabili in quell’anno. Miracolo economico e Cassa del Mezzogiorno avevano ridotto in modo importante le differenze tra le aree del paese e, immaginavano Saraceno e il ministro, si sarebbe potuta finalmente costruire un’Italia veramente unita. Il Sud non era più lo sfasciume pendulo sul mare le cui condizioni si erano drasticamente aggravate durante il ventennio fascista e la guerra. Non era una spacconata la loro. L’ipotesi di Pella e Saraceno era, infatti, fondata sul dato che tra la fine della guerra e l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso il divario si
era notevolmente attenuato. Ma i due avevano valutato quello che avevano alle spalle e non quanto avevano di fronte. Davanti, invece, avevano le Regioni e l’inizio di uno spostamento di attenzioni non più tarati sul Paese, la Patria o la Nazione, come dir si voglia, ma sui territori.
Insomma, a partire dal 1972 le differenze tra le due aree del paese, grazie all’irruzione delle Regioni, ricominceranno ad allargarsi fino a determinare le due Italie diverse oggi esistenti. Perché le Italie oggi sono due se in una parte lo Stato spende 4000 euro in più per ogni cittadino. Se il diritto alla vita (alla sua lunghezza) ricomincia ad allargarsi in modo significativo, nonostante il punto di partenza fosse una vita più lunga a Sud. Se le donne che muoiono di tumore al seno nel Mezzogiorno sono più numerose che a Nord, anche se in passato erano di meno, perché la sanità meridionale non può consentirsi una dignitosa medicina preventiva.
È accaduto che i processi produttivi e le scelte vantaggiose si sono sempre più accentrati nel Centronord del paese innescando svantaggi per l’altra metà d’Italia nell’occupazione, nelle cure mediche, nei trasporti, nello studio (a partire dagli asili nido la cui frequenza viene considerata di valore strategico per l’intera crescita successiva dalle moderne discipline psicopedagogiche) e via elencando. Non a caso in queste settimane la discussione s’incentra, e soprattutto s’inceppa sulla spesa storica (cioè quanto lo Stato spende realmente oggi per ogni cittadino) e i Lep (livelli essenziali di prestazione) spesa che la Costituzione deve, dovrebbe, garantire a tutti i cittadini (dalle Alpi al Canale di Sicilia) sta ingarbugliando i tentativi di chi chiede l’Autonomia in tutta fretta per chiudere il cerchio prima possibile.
Il ministro Calderoli, sulla cui geniale furbizia politica pochi hanno dubbi, ha già avvertito non solo di essere d’accordo ma di volere la definizione dei Lep prima di concedere a Veneto, Lombardia, Emilia (ma anche Regioni meridionali come Campania e Puglia) l’Autonomia. Sarebbe una bella notizia se nel suo stesso testo non venisse precisato però che se entro un anno il Parlamento non fisserà i Lep si passerà all’approvazione dell’autonomia sulla base della spesa storica.
È necessario aggiungere che il Parlamento, neanche sotto minaccia armata, riuscirebbe a fissare i Lep entro un anno che è, appunto, il tempo che il ministro s’è fissato, e concede al Parlamento, per una decisione che potrebbe prosciugare alla Ragioneria del ministero del Tesoro tra i 190 e i 140 miliardi dal bilancio dello Stato?