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L’anno della giustizia si è chiuso con due assoluzioni, o meglio con un proscioglimento in udienza preliminare e un’assoluzione in primo grado. Imputati eccellenti: Matteo Renzi e Matteo Salvini. I giudici non hanno guardato in faccia ai loro colleghi pm, né in un caso né nell’altro. Erano vicende delicate, che implicavano questioni di principio più ampie del singolo specifico caso: da una parte il diritto a sostenere la politica ( e della politica a procurarsi sostegni), dall’altra i limiti della magistratura, a cominciare dalla magistratura inquirente, nel sindacare scelte politiche, discutibili ma comunque afferenti alla competenza di un potere diverso da quello giudiziario.
Tutto questo è la prova che l’autonomia dei giudicanti rispetto alla pervasiva influenza dei requirenti c’è già e che la separazione delle carriere non serve? Forse no.
Però ci sentiamo di dire che casi simili offrono indizi sul senso profondo della riforma Nordio.
L’attuale governo, e l’attuale guardasigilli, sono stati più di una volta additati come premurosi nelle riforme che tutelano gli indagati illustri e spietati nei confronti dei più deboli, che si tratti di madri detenute o di migranti da espellere. Ora, al di là del fatto che tutelare un politico dall’invadenza indebita del potere giudiziario significa preservare la democrazia, la rappresentanza e dunque i diritti politici di ciascun singolo cittadino, a noi sembra che casi come quelli di Salvini e Renzi illuminino un aspetto finora sottostimato, della modifica sulle “carriere”: la tutela che, nell’equilibrio e nella distanza fra giudici e pm, si assicura alla moltitudine degli imputati “invisibili” piuttosto che alla ristrettissima cerchia degli “eccellenti”. Rendere i giudici più distanti, e dunque più liberi, dai pubblici ministeri, nel decidere se prosciogliere, arrestare, condannare o liberare è un’urgenza che riguarda innanzitutto i tantissimi sventurati irretiti nella macchina infernale del processo e, spesso, dell’ingiusta detenzione, assai più dei cosiddetti colletti bianchi.
È una verità scritta nei numeri, nella fretta imposta ai giudici dall’efficientismo, nella prassi di una vicinanza funzionale e ordinamentale che finisce inevitabilmente per far sentire il proprio peso. Ed è una verità a cui forse l’attuale maggioranza dovrà affidarsi, nella difficilissima campagna referendaria sulle carriere separate. Anche perché l’equilibrio, nella comunicazione a sostegno del sì, sarà decisivo. Lo sa bene la premier Giorgia Meloni la quale, nell’intervista al magazine 7 del Corriere della Sera, è tornata sulla scintilla che il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino innescò all’inizio del proprio impegno giovanile. La presidente del Consiglio ha quindi ribadito di avere «massimo rispetto per i giudici». E si è sforzata di individuare una formula, una exit strategy impegnativa anche rispetto al nodo che oggi più la allontana dall’ordine giudiziario, vale a dire i trattenimenti in Albania e i “Paesi sicuri” per i richiedenti asilo: «Resto convinta che la stragrande maggioranza dei magistrati italiani abbia il nostro stesso obiettivo, ovvero quello di disarticolare le reti criminali e assicurare alla giustizia i trafficanti di esseri umani».
Posizioni coerenti con la responsabilità istituzionale, ma forse inadatte come messaggio per spingere gli elettori a votare sì sulla separazione delle carriere.
Ecco perché sarà indispensabile presentare la riforma come la soluzione in grado di rafforzare la giustizia nell’interesse dei cittadini, dei singoli imputati innanzitutto. Basterà a far vincere il sì? Non è detto, ma vale la pena di provarci.