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Prime Minister of Israel Benjamin Netanyahu addresses the 79th session of the United Nations General Assembly, Friday, Sept. 27, 2024. (AP Photo/Pamela Smith) Associated Press / LaPresse Only italy and Spain
Il quadro è ormai chiaro, il puzzle è completo: la guerra di Benjamin Netanyahu ha l’obiettivo di riscrivere i confini geopolitici di tutto il Medio Oriente. Per sempre. È un piano ambizioso e pericoloso, che mira a cambiare gli equilibri di una regione paralizzata, prigioniera di una coazione a ripetere lunga quasi un secolo.
“Ora o mai più”, ripete la propaganda israeliana. E non si tratta solo di una frase vuota: dietro quello slogan, quel mantra, non c’è solo Netanyahu, ma un intero Paese che ha affidato al suo primo ministro il “lavoro sporco”, il compito di garantire la sua sopravvivenza a qualsiasi costo.
Sopravvivenza, certo, è questa la parola chiave, la posta in gioco. Ed è sufficiente sfogliare i giornali israeliani, anche quelli più progressisti, per capire che la popolazione vive questa fase come una minaccia esistenziale. L’attacco del 7 ottobre ha risvegliato antiche paure, riportando alla luce i traumi storici e facendo riaffiorare il senso di vulnerabilità che accompagna da sempre il popolo ebraico.
Per questo Netanyahu non si fermerà. E dopo aver ridotto in cenere Gaza e decapitato Hezbollah, mirerà al bersaglio grosso: l’Iran. Non v’è dubbio, infatti, che Teheran rappresenta la minaccia più pericolosa, il centro di una rete di alleanze che da anni progetta l’eliminazione - o quantomeno il ridimensionamento - di Israele.
E Tel Aviv sa bene che mai come ora il contesto internazionale è così favorevole. Gli Stati Uniti, alle prese con una fase di transizione politica complicata e una presidenza debole, non sembrano in grado di influenzare le decisioni di Israele. Netanyahu sa bene di poter agire in una sorta di “semestre bianco” atlantico, che offre un margine d'azione quasi illimitato.
Ma il calcolo di Israele è ancora più complesso. Un attacco all'Iran non servirebbe solo a garantire la sicurezza immediata di Israele, ma potrebbe indebolire il regime degli ayatollah, già messo sotto pressione dalle striscianti proteste interne. Questo potrebbe portare a un cambiamento di regime in grado si sconvolgere gli equilibri del Medio Oriente, ridisegnando la mappa politica della regione.
Tuttavia, questa strategia potrebbe rivelarsi un azzardo pericoloso. Se l’attacco non riuscisse o scatenasse reazioni fuori controllo, Israele rischierebbe di innescare un conflitto su larga scala dalle conseguenze imprevedibili. Quella che oggi viene vista come una vittoria decisiva potrebbe rapidamente trasformarsi in un disastro geopolitico.
Nonostante questi rischi, Netanyahu non sembra avere dubbi. “Se non combattiamo, moriamo. Ma non è solo la nostra battaglia, è la battaglia del mondo libero e della civiltà stessa”, ha dichiarato. Il primo ministro cerca così di inserire il conflitto in una cornice più ampia, presentando Israele come un baluardo della modernità che combatte contro “l’asse del male”.
Questa narrazione, però, rischia di acuire ancora di più le tensioni in una regione già profondamente divisa. La posta in gioco non è solo la sicurezza di Israele, ma la stabilità dell’intero Medio Oriente. Se i calcoli di Netanyahu fossero errati, le conseguenze potrebbero essere catastrofiche. E non solo per Israele.