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President-elect Donald Trump speaks during a news conference at Mar-a-Lago, Tuesday, Jan. 7, 2025, in Palm Beach, Fla. (AP Photo/Evan Vucci)
Ese, infine, Donald Trump non avesse tutti i torti? Nel pronunciare a braccio il suo primo discorso, il quarantasettesimo presidente ha tratteggiato, mostrando brutale inconsapevolezza dei problemi che assillano gli Stati Uniti, e soprattutto delle possibili soluzioni, un’America tornata a quel “complesso della fortezza” ricorrente nella storia, e che oggi sembra piuttosto un “complesso della Trump Tower”. Insomma, l’America First trumpiana sembra essere una condizione necessitata. L’espressione, che non fu inventata da Ronald Reagan nel 1985 ma da John E. Hoover per l’Fbi nell’epoca buia del maccartismo, rende bene, è ciò che ha riportato Trump alla Casa Bianca, vincendo anche il voto popolare, perché una buona metà degli americani ha - esattamente come l’attuale presidente- percezione del declinante ruolo della potenza americana.
Percezione e non consapevolezza, perché quest’ultima avrebbe portato forse a differenti scelte elettorali, di certo non ad affrontare le “issue” come Trump ha dichiarato di voler fare: tra le altre cose, deportazioni in massa di milioni di “immigrati irregolari”, nei fatti americani che trainano l’economia nazionale; abolizione dello ius soli (che è in Costituzione dal 1868, anche in quanto pre- condizione per candidarsi alla Casa Bianca); protezionismo, e dunque limiti alla concorrenza in quello che è il Paese principe del libero mercato; e generiche quando non nebulose promesse circa una “magistratura non politicizzata” (negli Stati Uniti la pubblica accusa è carica elettiva, e a suffragio universale diretto) e circa la lotta al carovita, spacciata come conseguenza dello stop al fracking, alle trivellazioni petrolifere selvagge.
Ma appunto, quell’America First pronunciato come se bastasse tirar su il ponte levatoio per salvare la fortezza, e giusto ringhiando contro Panama (“andremo a riprenderci il canale”) per mantenere un simulacro di superpotenza, cela e svela la debolezza degli Stati Uniti di oggi. Le fondamenta sono scosse da un debito pubblico mostruoso, giunto nel novembre scorso a oltre 36mila miliardi di dollari (quello italiano, per capirci, è sui 130 miliardi di dollari), che gli Stati Uniti scaricano sul resto del mondo grazie al dollaro, che è ancora moneta di riserva preferita nel mondo, sin dai tempi di Bretton Woods, e nonostante sia stata sganciata da Richard Nixon nel ferragosto del 1971 dalle riserve auree di Fort Knox. Il dollaro è tale certo per l’autorevolezza della Fed, la banca centrale statunitense, ma soprattutto per la solidità e la stabilità del sistema americano: doti che proprio la presidenza Trump potrebbe minare.
Il deficit annuale americano, dopo il pareggio di bilancio che Bill Clinton centrò nel 1997, è andato via via crescendo sino all’ 85% segnato dalla famosa crisi dei mutui sub-prime che dagli Stati Uniti contagiò il resto delle economie avanzate durante la presidenza Obama, fino al 100% post- Covid: le politiche di quantitative easing dell’ultimissima presidenza Trump, e poi l’Americam Rescue Plan di Joe Biden hanno fatto il resto.
Oggi, il debito pubblico americano copre la quota del 35% dell’intero debito mondiale. E, a differenza del pur vertiginoso debito pubblico italiano, a fronte non di un solidissimo risparmio privato, ma di un indebitamento dei cittadini che raggiunge quasi lo stesso livello. I titoli del debito pubblico americano, poi, sono nelle mani anzitutto di tre Paesi: Giappone, Germania, e soprattutto Cina. Si spiega, in parte, così l’appeasement di Trump verso XI Jin Ping (compresa la vicenda di Tim Tok, “oscurato” via sentenza dalla Corte Suprema, e di fatto “riattivato” dall’amministrazione trumpiana nel giro di poche ore). Il Celeste Impero, come sempre, osserva le minacce protezionistiche con l’espressione del Budda sorridente, e non vende il suo 35 per cento e rotti di debito pubblico americano perché al momento non le conviene. Ma, con tutti i numerosi problemi interni, ad oggi la Cina produce il 18 per cento del Pil mondiale, gli Stati Uniti il 15 ( e la Ue solo il 12).
L’America ha smesso da tempo di essere la fabbrica del mondo, espressione che oggi si usa per la Cina, e importa a credito ciò che non produce, tanto che la sua posizione debitoria verso l’estero ammonta a 20 trilioni di dollari: il 75 per cento del reddito nazionale. Sommersi dai debiti, verrebbe da commentare: è il motivo per il quale “saremo una potenza di pace”, per dirla con le parole di Trump al discorso di insediamento.
Da tempo, gli Stati Uniti hanno dismesso i panni di “gendarme del mondo”, e per questo chiedono agli altri Paesi membri di incrementare i finanziamenti all’Alleanza Atlantica: non se lo possono più permettere. Sul contribuente americano grava ancora il ricordo della catastrofica guerra in Iraq, costata all’incirca mille miliardi di dollari, che è servita solo a destabilizzare quella regione del mondo, e nei cui esiti nefasti siamo ancora immersi. In questo scenario, l’unica supremazia americana risiede nelle tecnologie internet (e anche così si spiegano le genuflessioni di Google, Facebook, Amazon etc davanti a Trump) e su quello che in futuro sarà l’Intelligenza Artificiale. Che però per ora non genera profitti, e nessuno sa dire quando e come sarà in grado di farlo.
Dunque, non ci sono i fondamentali economici perché gli Stati Uniti possano ambire ad altro che all’America First. Guida del mondo libero, e il loro presidente leader di quel mondo libero, si trovano adesso in una democrazia periclitante, e in un orizzonte preoccupantemente mutato: Cina, Brasile, India, e anche la Russia fatturano assieme assai più degli Stati Uniti, e giocano su scacchiere di alleanze geopolitiche diverse, ma tutte in aperta competizione quando non avversione con Washington. Che curerebbe l’America First tenendosi quantomeno stretta Bruxelles, non rinchiudendosi nelle illusioni della Trump Tower.