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CARCERE SAN VITTORE SALA ATTESA COLLOQUI
A un anno e poco meno dalla sentenza 10/2024 con cui la Corte costituzionale ha stabilito il diritto delle persone detenute ad avere incontri intimi, cioè sottratti al controllo a vista del personale di custodia, con i partner di stabili relazioni affettive, una cosa è chiara: lo Stato, nelle sue articolazioni competenti del ministero della Giustizia, non ha fatto assolutamente nulla per rendere effettivo tale diritto.
Con una indifferenza degna di nota verso le pronunce del Giudice delle leggi, non ha ottemperato, insomma, al precetto fissato nella sentenza e, a parte l'esperienza di Padova, non c'è Istituto penitenziario italiano in cui si siano predisposti ambienti idonei a ospitare i colloqui in intimità.
Il tema, del resto, sconta l'incontro, davvero molto intimo, tra due impostazioni ideologiche piuttosto diffuse, nella cultura comune e in quella degli operatori del sistema della giustizia, che nei tempi attuali vivono un chiaro momento di rinvigorimento: la tradizionale pruderie italica verso il sesso, che si fa ma non si dice, e l'idea che la detenzione in carcere debba essere afflittiva, come elemento necessario della punizione. E quindi, in estrema sintesi, questo diritto all'intimità in carcere è visto come qualcosa di un po' troppo: passi per gli incontri con la famiglia, ma il sesso no, altrimenti che pena è?
Tant'è che, caso mai, si ritiene che si tratti di qualcosa che va meritato, un premio insomma: a questo si sta pensando, pare, al Tavolo del Dap cui partecipa il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, ipotizzando di risolvere la questione con la concessione di permessi ad hoc, come ha spiegato uno dei membri del Collegio indicandola come la soluzione più pratica.
Peccato che i permessi ad hoc per “consentire di coltivare interessi affettivi” siano già previsti da una norma dell'Ordinamento penitenziario, l'art.30-ter, e siano soggetti a condizioni, di termini di pena e di meritevolezza, che non possono riguardare l'intera popolazione detenuta, come sottolinea la Consulta nella sua sentenza. Il permesso, del resto, è letteralmente il prodotto di una concessione, un beneficio, un premio, come lo definisce la norma, va meritato: un diritto è un diritto, non deve essere meritato mai.
Quindi, a meno che il tavolo del Dap e del Garante inventi (e crei per legge) una nuova forma di permesso che apra le porte del carcere a tutti indistintamente per esercitare il diritto all'affettività, salvo le esigenze di sicurezza fissate nella sentenza della Corte, è con il diritto ai colloqui intimi in carcere che ci troviamo a che fare. Un diritto, non una aspettativa da nutrire in attesa che lo Stato adempi al suo dovere di dare realizzazione a un disposto dell'autorità giudiziaria regolatrice delle leggi, come ha espressamente chiarito la Corte di Cassazione con la recente sentenza 8/2025 annullando il decreto del giudice di Sorveglianza di Torino che a questo rango aveva declassato la “legittima espressione del diritto all'affettività”.
Peraltro, se si derubricasse in aspettativa ogni diritto di cui lo Stato non si impegna a dare piena attuazione, si prenderebbe una china rischiosa per lo stesso Stato di diritto. Invece proprio dalla magistratura, da quella di sorveglianza, può venire la sollecitazione di un apparato statale inerte, che nelle condizioni di degrado e di sovraffollamento generate dall'inerzia politica e del governo trova la giustificazione della propria inerzia e coltiva il proprio disinteresse verso i principi statuiti dalla Corte costituzionale.
Lo strumento è quello previsto, opportunamente, dalla norma dell'ordinamento penitenziario che regola il diritto di reclamo giurisdizionale: il potere del giudice di ordinare "all'amministrazione di porre rimedio" al pregiudizio di un diritto che ha realizzato, di farlo entro un detto termine e, nel caso mancato rispetto dell'ordine dato, di ordinare "l'ottemperanza", nominando, se del caso, un commissario ad acta.
Un potere forte, di cui dispongono i giudici della sorveglianza, i magistrati preposti anche (o soprattutto) a presidiare il rispetto dei diritti dei detenuti, che dà loro la possibilità di passare dalla teoria alla pratica, dall'affermazione di diritti al loro effettivo esercizio, dalle parole ai fatti, dalle aspettative al diritto.