È morto sapendo di aver perso, Papa Francesco. Proprio come il Nazareno, come colui che ha dedicato il proprio passaggio terreno al riscatto degli ultimi, degli sconfitti. Francesco ha indossato la croce di ferro per cambiare la sua chiesa, per guardarla dritto negli occhi come si guarda un figlio che si è perduto: con amore, con dolore, con ostinazione. E ha cercato di restituirle un volto umano, cristiano fino allo scandalo.

Non era un papa politico, Francesco; non era un papa curiale, benché la curia lo abbia accolto con i suoi sorrisi educati e le sue pugnalate “rituali”. Era un’anomalia. Un Papa che non voleva vincere, ma persuadere. Che non voleva comandare, ma testimoniare. Che non voleva restaurare, ma spogliare.

A cominciare da quel nome, Francesco, annunciato al mondo intero una tiepida sera di marzo di 12 anni fa. Niente ori, niente ermellini: solo una croce di ferro al collo e una sedia a rotelle, alla fine. È entrato nel Palazzo come si entra in un campo minato, ma senza paura. Non perché fosse un rivoluzionario: perché sapeva che la vera rivoluzione, nella Chiesa, è il ritorno all’origine. Al Vangelo, spoglio e tagliente come un coltello.

La sua lotta contro la curia – e sì, fu una lotta, a volte aspra, a volte stanca – non era una guerra per il potere. Era un tentativo quasi disperato di ridare dignità a una Chiesa che si era perduta tra i velluti. Francesco ha tagliato, sfoltito, denunciato. A volte anche con durezza. Ha preso la parola di Cristo e l’ha messa sul tavolo come una lama. E se ne sono offesi in molti. Perché un Papa che parla di "vecchiaia spirituale", di "arrampicatori ecclesiastici" e di "carrieristi mascherati da pastori", non sta facendo diplomazia. Sta cacciando i mercanti dal Tempio.

Ma poi è arrivato il mondo. Il mondo vero. Quello delle bombe, della paura, del sovranismo. E allora ha parlato di accoglienza e si è trovato davanti i muri; ha parlato di pace ed è stato silenziato dal fragore delle armi. Ha teso la mano e si è ritrovato solo, o quasi. La sua voce, profetica e stonata rispetto al coro globale, è rimasta spesso sospesa nel vuoto, come una preghiera che non trova ascolto.

Eppure, questa sconfitta è la misura della sua grandezza. Perché Francesco era animato dalla sua fede. E la fede, quella vera, non cerca successo: cerca verità e non si adegua. Si espone al rifiuto. Sceglie di perdere, se necessario. Il suo ultimo gesto – quella visita silenziosa ai detenuti di Regina Coeli, poche ore prima della fine – è stato il sigillo di una teologia concreta, umile, radicale. Non ha cercato una morte simbolica, l’ha resa simbolo: è morto tra gli scartati, come chi vuole ricordare che Dio si fa trovare sempre dove noi non guardiamo.

La pietra scartata è divenuta pietra angolare, come dice il Vangelo. Francesco lo sapeva. Sapeva che i potenti lo avrebbero combattuto, i devoti lo avrebbero frainteso, i teologi lo avrebbero contestato. Ma non ha smesso di indicare la strada. Ora che è morto, lo capiamo meglio: non era lì per vincere. Era lì per ricordarci che “perdere”, a volte, è l’unico modo per restare fedeli. Ed è questo, in fondo, il suo più grande esempio, la sua più grande vittoria.