Alla fine Giovanni Toti ha ceduto. Di schianto. Troppo forti le pressioni politiche, e troppo logorante l’attesa di una “scarcerazione” sempre posticipata e allontanata ancora di più dalla nuova ordinanza che qualche malpensante ha definito “a orologeria". Dubbio legittimo visto che è stata “consegnata” nel giorno in cui le opposizioni sfilavano tra le vie di Genova per chiedere le dimissioni del “governatore inquisito.”

Toti ha ceduto, è vero. Ma sarebbe un grave errore di sottovalutazione pensare che queste sue dimissioni siano una “questione privata”. L’addio di Toti, piaccia o non piaccia, rappresenta l’ennesimo cedimento alla forza d’urto di una magistratura in grado di revocare, invalidare, sopprimere il voto popolare con una semplice e discutibilissima inchiesta.

E a nulla sono valsi gli appelli di giuristi come Sabino Cassese, che più e più volte, anche attraverso un parere consegnato alla difesa, ha spiegato che il rispetto del diritto dei magistrati a indagare i politici deve essere bilanciato al rispetto del voto popolare. Che poi, a ben vedere, è il cuore stesso della nostra democrazia.

Ne è servita a qualcosa la solidarietà del ministro Nordio che fino oggi provava a spiegare - da ex magistrato più che da guardasigilli - che nessuno dovrebbe dimettersi a causa di un’indagine: primo perché in questo modo si dà un potere enorme alla magistratura, secondo perché esiste una cosa chiamata presunzione di innocenza che dovrebbe essere sempre considerata.

Insomma, Toti ha ceduto, ma è un cedimento che riguarda tutta la politica italiana e perfino la tenuta dell’equilibrio tra poteri. E a questo punto il buon Matteo Renzi - lui sì un sincero garantista - dovrà chiedersi se il campo largo che ha in mente prevede anche le sfilate - forconi in pugno - sotto le abitazioni dei politici indagati.