C’era un tempo in cui i Servizi segreti facevano i servizi “segreti”. Un mestiere ingrato e polveroso: notti insonni, lingue straniere, infiltrati, microfoni nascosti nei telefoni e nei posacenere. Oggi invece sembra che i nostri servizi segreti siano distratti dalla lettura dei giornali, per prendere appunti, indignarsi e querelare. Leggono Il Foglio, leggono l’Unità del nostro amico Piero Sansonetti, si sentono diffamati, si risentono e vanno dall’avvocato.

Cosa ha fatto di tanto eversivo la stampa? Ha raccontato una storia, uno scoop, come si diceva una volta: ovvero che il capo dell’Aise – Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica -, nei giorni caldi del caso Almasri, si sarebbe recato in Libia per consegnare ai colleghi locali una lista di ricercati dalla Corte dell’Aja. Non ci risulta che la notizia sia stata smentita. Ma, invece di chiarire, spiegare, correggere, i Servizi hanno pensato bene di depositare una querela.

Ora, un paese in cui i vertici dei Servizi segreti si mettono a querelare i giornali è un paese che ha perso il senso della misura. In cui la libertà di stampa – la stessa libertà che la Costituzione tutela e che la nostra intelligence dovrebbe custodire e difendere – diventa materia di contesa giudiziaria. Un’anomalia, un errore di prospettiva, un cortocircuito istituzionale. Perché non esiste sicurezza senza trasparenza, né democrazia senza la possibilità di raccontare ciò che i poteri non vogliono che venga raccontato.

La nostra non è solo una solidarietà corporativa verso Sansonetti e Cerasa, due direttori di giornali liberi, liberali e libertari. È una preoccupazione seria, concreta, per il destino di un paese in cui si chiede alla stampa di abbassare la voce e ai servizi segreti di alzarla nei tribunali. E questo, piaccia o no, è un problema di libertà.