PHOTO
In un pregevole intervento su Avvenire di ieri il filosofo Eugenio Mazzarella argomenta da par suo sulla necessità di superare la contrapposizione, irriducibile al momento, tra posizioni giustizialiste e posizioni garantiste e per farlo suggerisce di muovere dalla pietas che deve sempre volgere lo sguardo e assicurare ristoro ad Abele, alla vittima innocente. Non c’è dubbio che, dopo decenni di ingiusto oblio, le vittime dei reati abbiano assunto un ruolo mediatico e politico di grande rilievo nel dibattito pubblico sulla giustizia. Questa centralità stenta, ancora, a conquistarsi pari spazio e dignità nelle anguste rime del processo, ma è indubbio che la voce delle vittime e dei loro sfortunati congiunti abbia assunto un peso notevole nel dibattito pubblico sui temi della giustizia. Al punto da dare a volte l’impressione - con accurate interviste “preventive” e addolorate esortazioni mediatiche in prossimità delle aule di giustizia - di voler condizionare l’esito dei processi o di volerlo sconfessare se contrario alle proprie convinzioni e aspettative.
Le sconvenienti prese di posizione sulla recente assoluzione di un imputato di violenza sessuale da parte di stimati giudici del Tribunale di Roma sono solo l’ultima rappresentazione che alla vittima e alle associazioni che intendono rappresentarla sia stata assegnata una posizione pubblica di assoluto rilievo. Il peso di queste incursioni mediatiche, la blanda efficacia delle norme sulla tutela della presunzione di innocenza, lo schierarsi pregiudiziale di tanti media a favore della vittima e contro il reo sono tutti elementi che rendono fragile, se non impossibile la ricerca di un punto di equilibrio tra garantismo e giustizialismo. Anche perché un dibattito quasi sempre annegato in un mare di polemiche non consente quel giusto distacco dalle cose che è il presupposto per una valutazione serena e per una ponderazione ragionevole dei fatti. Eppure, etimologicamente finanche, il processo è appunto un divenire, un percorso dinamico governato da regole. Tre gradi di giudizio, anzi quasi quattro, sono la dimostrazione evidente della profonda convinzione che attraversa la stessa Costituzione secondo cui la giurisdizione sia perennemente esposta al rischio dell’errore, all’alta probabilità dell’abbaglio, alla frequenza della svista. C’è, alla base dei principi che reggono il nostro processo penale, una sorta di insanabile e incomprimibile scetticismo verso la capacità del giudice di pervenire a una conclusione euristicamente validata, a un risultato convincente e rassicurante. Lo scorrere dei gradi di giudizio è nient’altro che il metodo che ci siamo dati per giungere alla meno provvisoria e parziale delle verità, certi che solo il pluralismo delle decisioni, il policentrismo delle corti e dei tribunali possa almeno in parte rassicurarci sulla colpevolezza o sull’innocenza.
In altri sistemi, negli Usa in primo luogo, vige la regola che la saggezza della giuria, la sua matrice popolare e non professionale, possano rappresentare la migliore soluzione al problema complesso e incerto della responsabilità dell’imputato; al punto tale che l’appello è una mera, rarissima eventualità. La battaglia tra giustizialismo e garantismo in quel paese praticamente non esiste nella ciclica virulenza con cui si consuma in Italia e per la semplice ragione che un unico grado di giudizio esaurisce la partita e quel che i giurati hanno deciso è percepito come l’unica verità praticabile e possibile. Una follia e basterebbe per tutti ricordarsi del caso di O. J. Simpson. Ma lì va bene così, anche se percentuali altissime di accusati patteggiano la pena proprio per il timore di finire sotto le grinfie di giurie manipolabili e prive di ogni competenza giuridica. È un costo che quel sistema paga. A noi è toccato in sorte di vedere processi che partono con dozzine di arresti, pompose conferenze stampa che coniano verdetti mediaticamente promulgati a distanza addirittura di ore dai fatti e che si concludono con assoluzioni a distanza di anni nell’imbarazzato silenzio di quei media che pure li avevano enfatizzati e sostenuti in principio. Da questo punto di vista la contrapposizione tra chi ritiene di doversi fideisticamente affidare all’accusa e ai suoi coreuti (giustizialismo) e chi, invece, considera doveroso proteggere l’imputato dal linciaggio mediatico sino alla condanna definitiva ( garantismo) è non solo irriducibile, ma addirittura indispensabile e vitale.
Lo scontro è solo in apparenza processuale, perché invero ha alla base una precisa visione del mondo e una precisa etica pubblica che separa nettamente chi ripone affidamento sui sospetti, sulle accuse, sulle ipotesi investigative – spesso perché danno conferma alla propria visione antropologica dei rapporti umani e alla propria percezione della stessa interiorità negativa degli uomini - e chi, invece, laicamente considera non il peccato, ma l’errore la più grave minaccia alla retta conoscenza dell’uomo e delle sue condotte. Si è giustizialisti o garantisti in forza di una precisa concezione assiologica dell'uomo e del mondo, della sua caducità o della sua incomprimibile dignità e ricchezza.
Il sangue di Abele pretende giustizia, è vero. Senza dimenticare tuttavia che «la via dell’inganno nasce stretta, ma troverà sempre chi sia disposto ad allargarla, diciamo che l’inganno, ripetendo la voce popolare, è come il mangiare e il grattarsi, tutto sta a cominciare» ( José Saramago, Caino, Feltrinelli 2010).