La maratona oratoria e l’astensione dalle udienze promosse da Ucpi hanno avuto il grande merito di porre la drammatica situazione delle carceri al centro del dibattito politico, richiamando anche l’attenzione dell’opinione pubblica rispetto a una questione etica di solito rimossa.

L’opera di sensibilizzazione ha finora prodotto un decreto-carceri che, a dispetto della roboante denominazione, non incide in alcun modo sul sovraffollamento, e i proclami sulla futuribile edilizia penitenziaria da realizzare, forse, nel prossimo decennio.

Quando la casa brucia non si può disquisire su quali siano le migliori misure antincendio da adottare, occorre intervenire subito e mettersi in gioco per spegnere il fuoco, rimandando a tempi migliori ogni ragionamento sui massimi sistemi. Lo dico con rammarico, dato che non ho mai creduto nelle soluzioni tampone o di compromesso, ma il dramma che stanno vivendo i detenuti nel nostro Paese è tale per cui bisogna scendere a patti anche con una politica ideologicamente indisponibile ad affrontare in modo sistematico i problemi dell’esecuzione penale.

D’altro canto, si deve ammettere che le proposte avanzate finora, dall’amnistia all’indulto fino alla liberazione anticipata speciale, pur condivisibili sul piano dei principi, sono irrealistiche nell’attuale quadro politico.

Qualsiasi provvedimento di natura clemenziale, teso a ridurre la durata della pena detentiva, non avrebbe il sostegno dell’attuale maggioranza parlamentare e di Governo. Non solo per coerenza con le proclamate politiche securitarie del centro-destra, ma soprattutto per una questione di consenso. Non dobbiamo infatti dimenticare che anche il centro-sinistra, quando c’è stata la possibilità di varare una seria riforma penitenziaria, peraltro commissionata dall’allora Ministro della Giustizia Orlando, ha fatto repentinamente marcia indietro poco prima della scadenza elettorale.

Il problema, dunque, non è l’ideologia law and order, e se così fosse avrebbe certamente una sia pure contestabile dignità politica, ma un mero calcolo elettorale, vizio italico trasversale a tutti i partiti, sul presupposto, forse sbagliato, che l’opinione pubblica non premierebbe chi avesse il coraggio di una riforma non carcero centrica.

Avendo ben chiaro il contesto politico di riferimento, bisogna sforzarsi di proporre una soluzione che sia concretamente praticabile e che consenta di ottenere nell’immediato il risultato di alleggerire significativamente l’intollerabile sovraffollamento penitenziario.

Andando per esclusione e accantonando tutte le proposte che incidono sulla durata della pena, in quanto sarebbero subito bollate come irricevibili, scartando anche l’eventualità di trasformare la pena carceraria in forme alternative non detentive che sarebbero viste come un inaccettabile cedimento rispetto alle esigenze punitivo-securitarie, non resta che valorizzare il più possibile la detenzione domiciliare in luogo di quella carceraria.

Il tema è molto complesso, ma si possono ipotizzare alcuni interventi minimali che avrebbero un impatto considerevole in tempi brevissimi, lasciando intatta la percezione sociale e politica che la limitazione della libertà personale prosegua “senza sconti”, sia pure al di fuori delle strutture penitenziarie ormai giunte al collasso.

Si potrebbe prevedere che, fatte salve le solite ostatività (distinzione ripugnante, ma oggi politicamente indiscutibile) e compatibilmente con altri benefici già maturati, ogni pena in corso di esecuzione, il cui residuo sia inferiore a quattro anni, si trasformi ex lege in detenzione domiciliare (da scontare, per chi non disponesse di un domicilio idoneo, presso strutture messe a disposizione dallo Stato, magari le famose caserme dismesse del Ministro Nordio), nelle more dell’eventuale decisione in ordine ad altre misure alternative. Verrebbero così sterilizzati gli endemici ritardi che si registrano nell’accoglimento delle richieste di affidamento in prova dei detenuti.

La previsione dell’art. 656 comma 10 c.p.p. andrebbe estesa anche agli ordini di esecuzione per pene che superino i quattro anni in ragione di un provvedimento di cumulo materiale, consentendo al condannato di rimanere agli arresti domiciliari in attesa della definizione dell’incidente d’esecuzione per il riconoscimento della continuazione o del concorso formale e stabilendo un termine per la proposizione della relativa istanza (ma si potrebbe imporre il dovere di iniziativa d’ufficio del pm).

Con più “coraggio” politico e con un po’ di lungimiranza, si potrebbe modificare il regime della detenzione domiciliare, portandolo al di sopra dell’affidamento in prova ordinario, ad esempio fino a 6 anni di reclusione, così da renderlo la forma di esecuzione della pena da applicare in via generale a tutti i reati di medio-bassa gravità, salve ovviamente le misure alternative più favorevoli da adottarsi con i tempi della sorveglianza.

Parallelamente, sarebbe opportuno cambiare le modalità di calcolo delle pene residue, stabilendo il principio per cui la liberazione anticipata si computa automaticamente, in mancanza di una decisione negativa dei giudici di sorveglianza, ribaltando l’attuale impostazione che scarica sul detenuto i ritardi nel riconoscimento giurisdizionale di un suo diritto.

La custodia cautelare in carcere dovrebbe, a sua volta, essere limitata ai soli reati del doppio binario (art. 275 comma 3 secondo periodo c.p.p.), sempre nella logica in sé aberrante della difesa sociale rispetto a un presunto innocente, stabilendo che in ogni altro caso la massima restrizione della libertà personale per chi è in attesa di giudizio siano gli arresti domiciliari.

Infine, ma non da ultimo, sarebbe auspicabile un risoluto intervento di moral suasion sui magistrati di sorveglianza da parte del Csm, un invito alla “supplenza” tante volte praticata in altri ambiti dalla magistratura, questa volta per garantire la massima espansione delle misure alternative alla detenzione, principio di sicura matrice costituzionale. Troppo spesso decisioni di carattere formale negano i benefici penitenziari a chi ne avrebbe pieno diritto ed è un vero scandalo che ciò accada per mano di giudici che dovrebbero avere come unica guida la Costituzione in cui la pena retributiva non ha diritto di cittadinanza.

Sono proposte certamente insoddisfacenti nell’ottica di una complessiva riforma del sistema punitivo, ma avrebbero il pregio di una loro pronta attuazione, senza per forza implicare un messaggio politico di benevolenza nei confronti dei detenuti.

Nella prospettiva della realpolitik, la detenzione domiciliare allargata presenterebbe notevoli vantaggi: si potrebbe attuare con strumenti di controllo elettronico in grado di tacitare ogni istanza di difesa sociale, avrebbe un connotato afflittivo (durata e tipologia della limitazione della libertà personale) equivalente al carcere, quindi senza benevoli sconti, al netto dell’illegittimo surplus oggi inflitto dalle condizioni inumane e degradanti del sovraffollamento penitenziario, e consentirebbe un contenimento significativo della spesa pubblica, considerati i costi pro capite del mantenimento dei detenuti negli istituti di pena. Sono tutti argomenti spendibili in questa disgraziata contingenza storico-politica poco incline a ragionamenti fondati su principi di civiltà del diritto.

Di solito il mese di agosto porta con sé le peggiori riforme del sistema penale, se quest’anno venisse adottato un decreto-legge sulla detenzione domiciliare allargata sarebbe un unicum degno di nota.