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Se sarà vera mafia, lo vedremo. Certo è che in questa inchiesta milanese sulle curve violente di Inter e Milan, per presentare la quale, oltre al procuratore Marcello Viola e tutto l’apparato dell’antimafia, era presente anche il capo della Dna Giovanni Melillo, non mancano gli elementi base che distinguono le associazioni a delinquere da quelle della criminalità organizzata. Parliamo della capacità di assoggettamento di interi spezzoni di società e di controllo del territorio attraverso ricatti ed estorsioni, con attentati e omicidi.
Quel che troppo spesso è assente dalle inchieste nelle città del Sud come al Nord d’Italia, ultima quella nata a La Spezia e approdata a Genova e che ha portato alle dimissioni del governatore Giovanni Toti. Perché non va dimenticato che la contestazione, in un’inchiesta, di un’aggravante mafiosa comporta, per gli inquirenti, un colossale via libera a un sistema di regole molto meno stringenti, prima di tutto nel prolungamento dei tempi di indagine, fino all’uso più “disinvolto” di intercettazioni e di metodi di captazione molto invasivi come il trojan, che registra e amplifica l’intero mondo della persona controllata.
Parliamo di situazioni come quelle delle tante inchieste che per esempio in Calabria hanno poi visto squagliarsi come neve al sole proprio ciò che la Procura, con l’avallo di qualche giudice, considerava la base per contestare il reato previsto all’articolo 416 bis del codice penale. Qualche parentela, per esempio, o la fantasia di grandi complotti. E lo squadrone dell’antimafia militante sempre pronto a marciare, a commemorare, a puntare il dito accusatore. Sono stati costruiti grandi processi che avrebbero avuto la pretesa di passare alla storia, come quello sulla famosa ineffabile “trattativa” tra lo Stato e la mafia, che ha fatto perdere tempo e denaro mentre tentava di distruggere reputazioni di alti servitori dello Stato, per poi finire nel suo luogo di naturale destinazione, il cestino della carta straccia.
La sorte cui non sfuggirà, se qualcuno saprà ritrovare la saggezza delle quattro precedenti archiviazioni, la megagalattica inchiesta sui “mandanti” delle stragi mafiose, quella di Firenze che cerca di processare Silvio Berlusconi anche da defunto, insieme con Marcello Dell’Utri, il generale Mario Mori, e anche Ilda Boccassini.
Ma se invece di andare a caccia di farfalle e di notorietà qualcuno avesse guardato nel cortile di casa? Per esempio nel mondo dei comitati d’affari che dominano gli stadi e che non si limitano a gonfiare quel po’ di merchandising dentro e fuori i campi di calcio? I segnali c’erano, occorreva solo esaminare il metodo, per capire se ogni reato aveva anche quella caratteristica lì, quella che non si basa solo sulle parentele, le amicizie e le intercettazioni, ma sulla capacità di assoggettare le persone e controllare interi territori.
Per esempio nel 2005, quando con un “agguato” notturno un gruppo di ultras juventini aveva scippato al Milan la “pezza”, cioè lo storico striscione della Fossa dei leoni, portandola allo scioglimento, che cosa avevano detto gli stessi estremisti della curva Sud rossonera? Che i “nuovi” che avevano preso il posto dei vecchi leader erano gente “che voleva girare in Porsche”, gente che “ha alzato il livello dei propri interessi”. Non era ora di accendere un faro su questi “nuovi”?
Comitati d’affari? Certamente. Imbrogli e raggiri sui biglietti degli stadi o la vendita delle bibite? Possono essere piccole cose, quelli che una volta erano i reati di pretura, quando c’erano le preture. Ma il quadro che viene presentato oggi, soprattutto per quel che riguarda la storia degli ultimi anni della curva Nord dell’Inter, sta parlando un linguaggio diverso. Drammatico, negli ultimi anni. Perché quando sul selciato si cominciano a contare i morti, allora sì che la mafia c’è, o può esserci. Perché non siamo più solo ai comitati d’affari.
Brutto segnale quello dell’assassinio, il 29 ottobre del 2022, del capo ultrà interista Vittorio Boiocchi, detto Zio, crivellato da cinque colpi di pistola. Quando nelle settimane successive da Boiocchi si passò a Bellocco, ecco che spunta lo “spocchioso calabrotto”, e una famiglia calabrese. E anche il sospetto, tra i ragazzi della curva Nord, dell’intenzione di alcuni, come si legge nell’ordinanza del giudice “… di avvalersi di una sorta di protezione esterna affidata ad ambiti collegati alla criminalità organizzata calabrese”.
Fatto sta che anche Antonio Bellocco viene ammazzato, a coltellate, lo scorso 4 settembre. In carcere, per quel delitto, troviamo Andrea Beretta, colui che gestiva gli affari della curva Nord insieme a Boiocchi, la prima vittima della faida. Dai morti che ci sono stati e sono stati visti alla paura di fare la loro stessa fine, il passo non è lungo. Soprattutto se si constata che certi stadi sono diventati zona franca, un territorio amministrato in regime di illegalità permanente, di ricatti e estorsioni, ma soprattutto di una reale sudditanza cui certi soggetti sono costretti dalla violenza di capi e capetti della curva. Gli steward ai cancelli per esempio, costretti dalla paura a chiudere gli occhi di fronte a ingressi illegali. Ma anche, in qualche caso, venivano intimoriti addirittura calciatori o allenatori. “Gli tremava la voce”, dicono al telefono di uno di loro. Zone di omertà che provocano un vero assoggettamento della società dell’Inter rispetto ai caporioni della curva Nord.
È questo il motivo per cui la Procura di Milano ha avviato non solo nei confronti dell’Inter ma anche del Milan (perché?) quel “procedimento di prevenzione” che già tanti danni ha prodotto nelle inchieste giudiziarie al sud d’Italia. Prima di tutto perché comporta una procedura che impone l’inversione dell’onere della prova, per cui saranno le due società a dover dimostrare di non aver nessun rapporto con quella zona franca e illegale che ha portato ai 19 arresti di lunedì. E poi perché si rischierebbe un provvedimento di amministrazione giudiziaria che potrebbe imboccare percorsi pericolosi per le due squadre, che dovrebbero semplicemente essere le parti lese in un eventuale processo. Soprattutto lasciate fuori dall’infamante marchio di un’eventuale presenza della mafia nel glorioso stadio Meazza.