Se prima dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani eravamo tutti consapevoli dei danni causati dalla riforma Cartabia al processo penale, dopo questo incontro abbiamo scoperto, con amarezza pari solo allo sdegno, che si è trattato di un intervento normativo non solo tecnicamente, ideologicamente e culturalmente sbagliato, ma anche del tutto inutile e ingiustificato.

Dirompente, addirittura sconvolgente, è stato il breve indirizzo di saluto del Presidente della Corte d’appello di Roma. Secondo il dottor Meliadò, per far funzionare la più grande Corte d’appello d’Italia e forse d’Europa basterebbero 22 giudici in più: «vi sono grandi problemi che si possono risolvere con piccole soluzioni … basterebbero 22 magistrati in più da destinare alle sezioni penali e riusciremmo a dimezzare i processi pendenti».

Le parole del Presidente Meliadò pesano come un macigno sulla riforma Cartabia, tenendo conto che proprio le Corti d’appello di Roma e Napoli erano state esposte al pubblico ludibrio per il dissesto cronologico dei giudizi di impugnazione sui quali si voleva intervenire.

Con soli 22 giudici in più ci saremmo risparmiati il furore del riformismo efficientista che ha reso l’appello un giudizio scritto e segreto, che ha imposto un modello di impugnazione a critica vincolata dalla specifica confutazione degli argomenti esposti dal giudice di primo grado, che ha tolto ai difensori degli imputati assenti l’autonomo diritto di impugnare, che ha previsto sterili formalismi a pena di inammissibilità dell’atto introduttivo.

Il tutto giustificato dalla retorica che dipingeva il giudizio d’appello come un buco nero temporale, dalla durata media di 800 giorni, dimenticando però che la vera durata del giudizio è di poche ore, in un’unica udienza, mentre gli altri 799 giorni sono frutto della cronica carenza d’organico dell’apparato giudiziario.

C’è un’evidente sproporzione fra gli interventi normativi che hanno letteralmente sfasciato il processo penale, conculcando il diritto di difesa e deturpando il giudizio d’appello, e la reale esigenza di buon funzionamento della macchina giudiziaria che poteva essere soddisfatta con l’immissione in ruolo di 22 giudici a Roma e forse poco più di un centinaio nel complesso delle altre 25 Corti d’appello.

Dunque, tanto rumore per nulla oppure c’è una spiegazione per le scelte di un PNRR che avrebbe potuto raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi, come il dimezzamento del carico pendente, collegando la riduzione della durata media dei processi penali a un limitato aumento degli organici della magistratura?

Evidentemente la riforma Cartabia è stata accuratamente pianificata da chi ha colto la straordinaria opportunità della pandemia e del successivo piano finanziario europeo per portare a termine, senza gli ostacoli della normale dialettica democratica, un progetto di controriforma del processo accusatorio coltivato da oltre trent’anni e culminato nella vera e propria ossessione per i giudizi di impugnazione.

Un progetto che in tempi di normalità democratica non sarebbe mai passato, ma che è stato oggetto di una scellerata negoziazione con l’Europa, un vero e proprio baratto fra diritti, garanzie e fondi europei.

Ora è chiaro a tutti che il PNRR è stato solo il pretesto e l’astuto espediente per raggiungere un risultato politico e ideologico ben diverso dalla riduzione dei tempi di durata media dei processi.

Se quest’ultimo fosse stato il vero obiettivo, lo si sarebbe potuto facilmente ottenere, a legislazione invariata, con un limitato ampliamento dell’organico della magistratura, senza nemmeno fare ricorso alla fallimentare esperienza del personale avventizio dell’ufficio del processo.

Per far funzionare la macchina giudiziaria non era necessario cambiare il modello, passando alla versione neo- inquisitoria, ma bastava mettere la benzina costituita da risorse umane ed economiche.

La questione non è nuova e finisce sempre per scontrarsi con lo spirito corporativo della magistratura che non vuole ampliare il suo organico, come ha denunciato apertamente e giustamente il Presidente del Cnf Greco. L’inutilità di una riforma così pervasiva trova conferma nella pubblicazione dei dati del disposition time che hanno proiettato l’efficienza in una dimensione quasi mistica. Stando a questo misterioso indicatore, il rapporto tra i processi pendenti e quelli definiti segnalerebbe una straordinaria riduzione del 29 % attribuita dagli agiografi ai taumaturgici effetti del d. lgs. n. 150 del 2022, senza però avvedersi che tali effetti si sarebbero prodotti ancor prima della sua entrata in vigore, posto che il lasso di tempo preso in considerazione va dal 2019 al 2023.

Come ha giustamente rilevato il segretario Ucpi Romanelli, le modifiche alle impugnazioni non possono aver inciso nemmeno sul primo semestre del 2023, ultimo dato disponibile, in cui il trend di diminuzione della durata media dei processi prosegue incessante. Il dato di realtà è che la guarigione miracolosa della giustizia penale si è realizzata ben prima e comunque a prescindere dalla portentosa riforma.

Curare una malattia in via di remissione spontanea non è mai un buon protocollo terapeutico. Se la diagnosi infausta è sbagliata, come nel nostro caso, la medicina rischia di essere letale.

L’incontro di Roma ci ha fatto capire che ci sono tutti i presupposti per una rinegoziazione del Pnrr in materia di giustizia penale, per tornare a parlare anche a Bruxelles di diritti, di garanzie e di efficienza del solo apparato giudiziario. In alternativa, non restano che i trattori.