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GIUSEPPE CASCINI PROCURATORE AGGIUNTO
Nelle ultime settimane il dibattito pubblico sui temi della giustizia si è acceso attorno alla proposta di istituire una “giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari”. Come spesso accade, ahimè ormai da molti anni, la discussione ha immediatamente assunto i toni dello scontro e della contrapposizione. La situazione si è ulteriormente complicata a seguito delle sentenze di assoluzione di due politici imputati in processi che hanno avuto una rilevante eco mediatica, alle quali sono seguite reazioni molto discutibili sul piano istituzionale sia da parte del Ministro della Giustizia, il quale in una intervista ha definito “temeraria” l’iniziativa penale in uno dei due processi, che da parte della Unione delle Camere Penali, che in un documento, ha definito “eversiva” l’azione della magistratura in quei due procedimenti.
È davvero difficile comprendere come dei giuristi possano esprimere giudizi così severi sul merito di procedimenti ancora in corso, senza nemmeno conoscere le motivazioni delle sentenze di assoluzione. Ed è molto grave che il Ministro della Giustizia, il quale è titolare dell’azione disciplinare, si esprima in quei termini, realizzando una inammissibile interferenza nei confronti dei giudici che dovranno stilare le motivazioni e nei confronti della Procura della Repubblica che dovrà decidere sull’eventuale appello.
In questi tempi difficili sembra ad alcuni che l’unico modo per farsi ascoltare sia quello di urlare il più possibile, di “spararla grossa”, mentre al contrario, a mio avviso, la moderazione del linguaggio e l’uso attento delle parole in un settore così delicato e ricco di sfumature quale quello della giustizia resta l’unico metodo possibile di ricerca di soluzioni nell’interesse generale.
E, quindi, nonostante il rumore e le grida, abbiamo il dovere di continuare a provare a ragionare, a confrontarci e a dialogare.
Per questo, nonostante il carattere volutamente provocatorio della proposta, e nonostante i toni polemici e mistificatori che l’hanno accompagnata, l’iniziativa per la istituzione di una giornata in memoria delle vittime di errori giudiziari dovrebbe essere accolta con favore dalla magistratura. E anche la proposta del Ministro di prevedere forme di ristoro per chi sia stato ingiustamente sottoposto a processo, al netto della grave sgrammaticatura istituzionale che l’ha accompagnata, merita attenzione.
Quello del giudicare, diceva Montesquieu, è un “potere terribile”, che coinvolge la vita delle persone, la loro libertà, la loro dignità, il loro onore. Ogni “errore” può avere effetti devastanti e conseguenze irreparabili. E per questo l’intero sistema giudiziario e le sue regole sono finalizzati ad evitare gli “errori”. Un pubblico ministero indipendente e imparziale serve ad evitare gli “errori” della polizia, riducendo il rischio di prevalenza di una logica di risultato che sempre può prendere chi ha come scopo e funzione istituzionale quello della ricerca del colpevole. Su questo dovrebbero riflettere di più e meglio coloro che oggi si battono per far uscire dall’ordine giudiziario i magistrati del pubblico ministero. Soprattutto gli avvocati, che più degli altri dovrebbero, a mio avviso, comprendere i rischi che ne deriverebbero per le garanzie dell’accusato nella delicata fase delle indagini.
Un giudice indipendente e imparziale, funzionalmente distinto dal pubblico ministero, serve ad evitare l’“errore” di una iniziativa penale infondata, con la possibilità di prosciogliere l’imputato nell’udienza preliminare in tutti i casi in cui ritenga “non prevedibile la condanna”. Un altro giudice indipendente e imparziale, funzionalmente distinto sia dal pubblico ministero che dal giudice dell’udienza preliminare, serve ad evitare l’“errore” di condannare un innocente, potendo pronunciare condanna solo quando la responsabilità dell’imputato risulti provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. E solo sulla base di prove raccolte nel processo e nel contraddittorio delle parti. Un altro giudice ancora, anch’egli indipendente e imparziale e funzionalmente distinto dal pubblico ministero, dal giudice dell’udienza preliminare e dal giudice del dibattimento di primo grado, serve ad evitare l’“errore” del giudice di primo grado, potendo annullare in grado di appello una condanna ingiusta.
Infine un altro giudice ancora, quello di legittimità, sempre indipendente e imparziale e funzionalmente distinto da tutti gli altri, serve a verificare il rispetto delle regole del processo e del giudizio, e ad evitare l’“errore” di una decisione assunta in violazione di legge.
Come si vede si tratta di un sistema molto articolato e complesso, che assicura un elevato standard di garanzie per le persone accusate di reato, sicuramente tra i più elevati al mondo, e che ha come scopo proprio quello di evitare gli “errori”. La sua complessità comporta, però, anche costi elevati, sia in termini di risorse necessarie che di tempi. E siccome le risorse ormai da molti anni scarseggiano, l’effetto è una dilatazione dei tempi, con grave nocumento per l’imputato che subisce la “pena del processo”, che spesso ha durata maggiore di quella eventualmente inflitta con la condanna.
Per questo tutte le persone che hanno davvero a cuore le garanzie delle persone accusate di reato dovrebbero impegnarsi in via assolutamente prioritaria per un aumento delle risorse destinate alla giustizia e per una drastica riduzione del numero di “crimini” meritevoli di una sanzione privativa della libertà.
Ma è sufficiente tutto questo, al netto di quanto detto su risorse e tempi, ad evitare gli “errori giudiziari”? Ovviamente no. Il giudicare è attività umana e, come tale, sempre suscettibile di errore. Potremmo anche provare ad aumentare i gradi di giudizio, portandoli a quattro o a cinque, il che avrebbe ovviamente una notevole incidenza sui tempi e sui costi. Ma questo potrebbe solo ridurre il margine di errore, mai eliminarlo.
Dobbiamo quindi rassegnarci alla inevitabilità dell’errore? Ovviamente no. L’uomo è un essere imperfetto, ma la sua grandezza consiste nella tensione verso la perfezione. E noi tutti abbiamo il dovere di mantenere alta quella tensione per ridurre il più possibile il rischio di errori.
Ogni operatore del diritto e, soprattutto, ogni magistrato deve sentire come imperativo categorico quello di evitare l’errore. E deve farlo attraverso il metodico e maniacale approfondimento degli elementi di prova, attraverso la predisposizione all’ascolto delle ragioni della difesa e, soprattutto, attraverso la pratica del dubbio. E in questo senso una giornata dedicata alla memoria delle vittime di errori giudiziari potrebbe certamente aiutare a mantenere alta quella tensione. Occorre, però, intendersi sul significato delle parole. L’errore giudiziario è, nella accezione in cui ne discutiamo in questa sede, la condanna di un innocente. Anche la condanna di primo grado, poi “rimediata” in appello, come fu per Enzo Tortora. E anche, per quello che si diceva sopra sulla “pena del processo”, il rinvio a giudizio di un imputato poi assolto. Ma errore non significa necessariamente “sbaglio” e, soprattutto, non significa necessariamente “colpa” di chi ha agito.
L’errore giudiziario può derivare da una serie di sfortunate coincidenze, dalla cattiva memoria di un testimone o di un pentito o dalla alterazione di una prova scientifica, oppure può derivare da una attività dolosa, da calunnie o da false testimonianze, da prove alterate. Ma l’errore può derivare anche, anzi quasi sempre, banalmente o semplicemente da una diversa valutazione di un fatto o di una prova.
È quello che succede nel calcio. Il difensore tocca la palla con una mano nell’area di rigore. L’arbitro, per decidere se dare o no il rigore, deve valutare una serie di circostanze di fatto, quali la distanza del braccio dal corpo o la distanza tra i due giocatori. E deve interpretare le norme del regolamento che definiscono tale infrazione. Quindi deve prendere una decisione. Gli addetti al Var, se non condividono la sua scelta, possono invitarlo a rivedere l’azione. Ma alla fine è lui a decidere. I tifosi di una squadra diranno che la decisione è giusta, quelli dell’altra squadra diranno che si è trattato di un errore. E anche i commentatori delle varie moviole potranno avere opinioni diverse. Ma, salvo casi rari di clamoroso svarione, non si può dire, oggettivamente, se aveva ragione l’arbitro o l’addetto al Var. E quindi si sceglie di applicare una regola di giudizio formale, quella consacrata nel famoso brocardo dell’indimenticabile Boskov: “Rigore è quando arbitro fischia”.
Lo stesso accade nel processo penale. Con alcune, non secondarie, differenze. In primo luogo noi non abbiamo il Var. E quindi per ricostruire un fatto dobbiamo affidarci ad un ragionamento di tipo induttivo sulla base degli elementi di prova a nostra disposizione. Elementi che possono anche cambiare nelle diverse fasi del procedimento, perché si scopre una prova nuova o perché un testimone cambia versione nel processo oppure perché un teste della difesa offre una diversa ricostruzione dei fatti. Poi, le regole da applicare in un giudizio penale sono sovente molto più complesse e incerte di quelle del gioco del calcio. I numerosi contrasti di giurisprudenza, con i quali tutti gli operatori del diritto sono costantemente chiamati a confrontarsi, documentano quanto articolata e complessa, e spesso anche mutevole, sia l’attività di interpretazione delle norme. Infine, ma soprattutto, il brocardo fondamentale su cui si fonda il giudizio penale non è quello di Boskov, ma quello del Digesto Giustinianeo: “In dubio pro reo”. L’assoluzione dell’imputato, dunque, in qualunque fase del giudizio intervenga, rappresenta l’esito fisiologico di un procedimento finalizzato all’accertamento di una verità convenzionale, cui si perviene sulla base di regole epistemiologiche, tutte innervate da quel principio del favor rei. L’esito assolutorio non può mai, dunque, considerarsi come prova di “errore” del pubblico ministero che ha agito, del giudice dell’udienza preliminare che ha disposto il rinvio a giudizio, del giudice di primo grado che ha pronunciato condanna. E, anzi, sarebbe molto pericoloso, proprio per le garanzie dell’imputato, considerarlo tale, perché rischierebbe di condizionare la libertà di giudizio del giudice.
Salvo i casi di clamorosi svarioni, che già possono essere sanzionati sulla base delle attuali regole in materia disciplinare e di valutazione di professionalità, l’esito assolutorio è semplicemente frutto di una diversa valutazione delle prove ovvero di una diversa interpretazione delle norme, che per regola convenzionale e di garanzia, ridonda a favore dell’imputato.
Certo, dal punto di vista di chi ha subito il processo si è trattato di un errore. Anzi di una “ingiustizia”. Ed è ragionevole dunque pensare a forme di ristoro, sulla falsariga di quanto già previsto per i casi di ingiusta detenzione. Ed è giusto, anche, che di quella sofferenza ognuno di noi faccia memoria.
Ma sarebbe un grave errore, mi si passi il gioco di parole, sovrapporre l’applicazione di un millenario principio di garanzia alla ossessiva e spasmodica, a tratti paranoica, ansia di punizione nei confronti dei “giudici che sbagliano”, che spesso trasuda dalle parole e dalle azioni di alcuni pasdaran. Perché un giudice intimidito e intimorito sarebbe un giudice meno libero e meno indipendente. E questo sarebbe un danno soprattutto per le garanzie di libertà dei cittadini.