Il Consiglio dei ministri ha dato semaforo verde al decreto modificativo dell’articolo 114 del codice di procedura penale. Dopo il prima via libera arrivato a inizio anno dal Parlamento, la “norma Costa” entra nell’ordinamento penale: viene introdotto il divieto, per chi si occupa d’informazione, di divulgare il testo delle ordinanze di custodia cautelare, sia integrali che per estratto, in cui in genere possono figurare intercettazioni, interrogatori e materiale probatorio per natura delicato.

In sostanza, sarà possibile pubblicare testualmente solo il capo d’imputazione. Del contenuto dell’atto, il cronista potrà proporre un riassunto, potrà cioè continuare a riportare le notizie sulle indagini e sulle ipotesi dell’accusa, ma non potrà offrire al lettore stralci più o meno intriganti, e virgolettati, del testo firmato dal giudice.

Le ordinanze non potranno essere pubblicate dai media fino a quando non saranno concluse le indagini preliminari o comunque fino al termine dell’udienza preliminare, cioè fino all’inizio del processo.

Si è fatta subito sentire la Federazione nazionale stampa italiana, dichiarando che “chi vuole mettere il bavaglio alla stampa è riuscito a completare l’opera”. Non si sono fatte attendere neppure le critiche delle opposizioni: il M5S accusa il governo di condurre a tappe forzate una lenta eutanasia della nostra democrazia, “dopo avere privato i cittadini di ogni tutela contro abusi e prevaricazioni da parte di pubblici amministratori”.

Nei mesi passati la norma era stata più volte ribattezzata “legge bavaglio”, ma, come già ampiamente disquisito da chi scrive proprio su queste pagine, non si tratta di un attacco liberticida, ma anzi di un tentativo, soprattutto culturale, di riportare un equilibrio di garanzie, in particolare nelle fasi primigenie di un procedimento penale (come noto, le più sensibili) che sia degno dello Stato di diritto in cui viviamo.

Anche qui il collega avvocato Enrico Costa ha centrato l’obiettivo di chiedere più prudenza e più tutela del soggetto sottoposto a indagini, avendo vissuto – da avvocato per l’appunto – lo svilimento degli assistiti di trovarsi “in pasto” alla gogna mediatica.

In questi anni la prassi giudiziaria ha testimoniato l’enorme abuso in fase cautelare, tanto da parte delle Procure quanto talvolta da parte dei Gip, del ricorso ai brani intercettati come ( unico, talvolta) contenuto della parte motiva vuoi delle richieste di misure cautelari vuoi delle ordinanze applicative, entrambe destinate, poi, alla successiva pubblicazione integrale da parte della stampa.

È noto a tutti come già il Legislatore degli ultimi anni, preso atto del dilagante fenomeno distorsivo dell’impiego dello strumento cautelare come una forma autosufficiente di “consumazione” ed esaurimento del giudizio di primo grado — formata dalla richiesta di misura cautelare, che suona come una richiesta di rinvio a giudizio, e dall’ordinanza applicativa della stessa, che si vorrebbe dotare della medesima autorevolezza di una sentenza di condanna anticipatoria dell’esito di un processo — ha tentato quanto più possibile di stroncare questa prassi, apponendo dei limiti in materia di pubblicabilità sui giornali del contenuto integrale delle ordinanze cautelari; in particolare, di quel contenuto costituito dai brani delle conversazioni intercettate.

Ecco che l’emendamento Costa non vieta, in realtà, in alcun modo alla stampa la possibilità di informare l’opinione pubblica circa l’avvenuta applicazione di una misura cautelare nei confronti di un soggetto, né di renderne note le ragioni a sostegno e gli elementi di prova addotti: si richiede, tuttavia, d’ora in avanti un maggior sforzo argomentativo agli organi di informazione, a tutela delle garanzie del singolo che, in ultima istanza, non sono altro che le garanzie della collettività.