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ERNESTO MARIA RUFFINI DIRETTORE AGENZIA DELLE ENTRATE
Forse hanno ragione tutti coloro che sostengono che i partiti e, a maggior ragione, i leader di partito e di coalizione, non si possono pianificare a tavolino. E il quasi surreale dibattito che si è aperto nel campo dell’alleanza di sinistra e progressista - a proposito di nuovi “federatori” e futuri partiti centristi - conferma che quando si ragiona quasi ed esclusivamente a tavolino difficilmente si arriva ad una sintesi efficace e feconda.
E la controprova arriva proprio dalla individuazione del nome e del cognome del cosiddetto federatore. Nell’arco di pochi giorni, infatti, l’ormai ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini è passato da federatore della coalizione di sinistra e progressista a possibile federatore delle forze di centro presenti in quella coalizione a riferimento quasi certo dei cattolici presenti nel Pd.
Proposte, designazioni ed investiture - o auto investiture - che in pochi giorni si sciolgono come neve al sole perché, essendo pianificate e gestite in laboratorio, è di tutta evidenza che rischiano di essere messe in discussione dagli altri capi partito che dovrebbero essere federati. Ora, è appena il caso di ricordare due regole quasi banali quando si parla di nuovi partiti e di nuovi leader che li devono rappresentare.
Innanzitutto i partiti - anche se oggi non abbiamo più i partiti democratici, radicati nei territori ed espressione di precise culture politiche come nel passato ma partiti prevalentemente personali o semplici ed innocui cartelli elettorali - o rappresentano realmente pezzi di società con i relativi interessi e aspettative oppure si riducono veramente ad essere prodotti di laboratorio con grande enfasi sugli organi di informazione ma con scarsa incidenza nelle dinamiche concrete della società. E non è un caso che si tratta di notizie che nell’arco di pochi giorni i titoli di prima pagina finiscono rapidamente in seconda poi in decima sino a scomparire del tutto.
E, seconda considerazione, il laboratorio funziona ancora meno quando si parla dei leader. C’è una antica battuta di Carlo Donat-Cattin che conserva una straordinaria attualità anche nella stagione politica contemporanea. Ovvero, diceva lo statista democristiano piemontese a metà degli anni ‘ 80, «in politica il carisma o c’è o non c’è. È inutile darselo per decreto».
Una concezione che difficilmente può essere messa in discussione anche in una stagione dove i partiti si sono volatizzati, le culture politiche sono quasi scomparse e le relative leadership sono elaborate e patrocinate dalle solite élite borghesi e alto borghesi. Anche quando si presentano come interpreti delle istanze popolari e di massa. Ecco perché per non farla lunga, lo spettacolo a cui abbiamo assistito in questi ultimi giorni - ripeto, il tutto è avvenuto molto rapidamente nel campo della sinistra e del centro progressista probabilmente non è destinato a segnare e a condizionare il futuro della politica italiana.
Questo non significa affatto che non ci sia una domanda di una nuova e rinnovata presenza centrista e moderata all’interno della coalizione di sinistra e progressista. Ma è indubbio che non può decollare attraverso le investiture dall’alto da un lato o con le decisioni autoreferenziali ed elitarie dall’altro. Di norma, anche in una società post ideologica e a volte post politica, i partiti e le rispettive leadership devono essere il frutto e il prodotto di un processo di crescita, di elaborazione, di rappresentanza, di confronto e di selezione autentica e democratica della classe dirigente. L’esatto contrario, purtroppo, di quanto è capitato nel campo centrista, e anche cattolico, nella coalizione di sinistra e progressista.