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Associated Press/LaPresse
Siamo ancora lì, immersi nella vecchia dicotomia popolo-élite che una recente ricerca del New York Times dipinge ormai come un dato strutturale. Del resto sociologi e politologi ce lo ripetono da anni: il divario non è solo politico, è una sorta di faglia sociale, un confine netto che separa due universi, due geografie della modernità. Popolo ed élite, una semplificazione scolastica, certo, ma che descrive perfettamente la nuova trama delle nostre città: da un lato chi vive ai margini, dall’altro chi si arrocca nei centri. Dove margini e centro non sono solo confini “geografici”.
Insomma, lo studio firmato da Celinda Lake e Amanda Iovino per il Nyt è più di un resoconto elettorale: è un affresco di un’America in piena contrapposizione. Da una parte, Kamala Harris, votata soprattutto dalle donne laureate, dal mondo progressista che vede nei diritti e nell’ambiente il perno della società futura. Dall’altra, Donald Trump, che porta sulle spalle “la croce” di un elettorato maschile, operaio, poco istruito, l’America dimenticata, tradita da un sistema che cresce ma non sa redistribuire. E così Harris vanta il 61% di consenso tra le donne laureate, mentre Trump - il miliardario vestito da spazzino - prende il 55% tra gli uomini non laureati ed economicamente fragili: sintesi plastica di un paradosso.
Non è una novità, intendiamoci. Per dirla con Pierre Rosanvallon e Jérôme Fourquet, è una “guerra culturale” fatta di fratture insanabili, due mondi sempre più distanti: da un lato, “l’élite urbana”, colta, cosmopolita e, dall’altro, il “popolo provinciale”, che vive un’esistenza quasi esiliata dal discorso pubblico. La sinistra, un tempo simbolo di riscatto sociale e lotta operaia, è ormai l’élite colta dei centri storici, il partito delle idee da museo e dei diritti riservati.
Pippa Norris e Ronald Inglehar, due politologi che hanno sezionato le nuove forme di “autoritarismo soft” parlano di “backlash populista”, ovvero di reazione a quella modernizzazione che ha arricchito le élite ma escluso chi è rimasto indietro. E Trump, con la sua retorica grossolana, si è offerto come simbolo di chi si sente lasciato ai margini, incarnando la rivolta di chi “non conta più nulla” contro un malcelato paternalismo dell’élite che a quel mondo, evidentemente, ha rinunciato.
Il copione si ripete anche in Italia: la sinistra ha perso la “connessione sentimentale” con le periferie, delle fabbriche - di quel che ne rimane -, trovando rifugio nelle roccaforti delle “odiate” ZTL. Così, mentre Milano centro si tinge di rosso, le periferie romane e le province restano terre di conquista per la destra.
“L’élite culturale e politica ha lasciato scoperto il fianco destro della società, dove le paure sociali sono esplose,” scrive Paolo Segatti. Il sociologo e autore di Apocalisse della democrazia descrive una sinistra divenuta “il partito della sicurezza urbana, della cultura, dei diritti civili,” ma che ha perduto il contatto con la spina dorsale del Paese: piccoli commercianti, operai, insomma, chiunque viva una perenne incertezza economica. È un cambio di prospettiva, un rovesciamento che Segatti riconosce nella “nuova destra europea”, pragmatica, che parla a chi non si sente più rappresentato da un’élite che appare sempre più chiusa.
Ma in questo teatro c’è una nota più sottile, un filo che accentua ancor più questa dialettica: la frattura tra diritti civili e battaglia sociale, l’illusione retorica che separa chi può parlare di diritti da chi vorrebbe vivere una battaglia vera, contro la precarietà sociale ed esistenziale. Un’illusione: i diritti non sono per pochi, non appartengono alla sola élite, sono la base per l’emancipazione sociale. Eppure, per qualcuno, è più facile mantenere viva questa frattura, lasciare che la dialettica dei diritti diventi o appaia esclusiva.
Insomma, lo scontro tra popolo ed élite prosegue, diventa più profondo, fino a sembrare incolmabile. E le elezioni americane, tra qualche giorno, potrebbero sancire un punto di non ritorno.