Il Papa, dunque, ha aperto una Porta Santa a Rebibbia. È un colpo di scalpello sulla pietra, un’eco che rompe il silenzio tombale su quella che ormai è diventata una strage quotidiana: i suicidi in carcere. La politica tace, ma Francesco no. Il Papa ha fatto di quella pietra scartata una pietra angolare, proprio come dice il Vangelo. E lo ha fatto in un clima dove il vento, invece di soffiare verso la misericordia, porta con sé polvere di punitivismo, di vendetta istituzionalizzata.

Questo gesto di Francesco affonda le radici in un precedente che rimane scolpito nella memoria collettiva: quello di Papa Roncalli. Fu a Regina Coeli, una visita a sorpresa che segnò un’epoca. Prima volle un detenuto come ministrante durante la celebrazione della messa, poi parlò a braccio, con parole che rivelavano l’intimità del suo cuore: «Son venuto. M'avete veduto. Io ho messo i miei occhi nei vostri occhi. Ho messo il cuor mio vicino al vostro cuore. Questo incontro, siate pur sicuri che resterà profondo nella mia anima». E concluse con un pensiero che ancora oggi risuona: «Ho ben piacere che sia proprio un'opera di misericordia».

A rafforzare il gesto di Papa Francesco è arrivata anche la voce del cardinale José Tolentino de Mendoça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l'Educazione, che ha dato una chiave di lettura ulteriore: «Tutti noi, come Chiesa e società, siamo chiamati ad abbracciare le carceri con umanità. La Porta Santa che il Papa ha aperto a Rebibbia ha un particolare significato. In analogia con quanto succede a Rebibbia, anche in altre carceri saranno aperte altre "Porte della Speranza". L'obiettivo è accompagnare i detenuti a vivere in modo riabilitativo e a prepararsi al rientro nella società. Il carcere non è un luogo di punizione, ma di riabilitazione. Tutto il mondo è chiamato a interessarsi di più». Il cardinale ha parlato nel contesto del progetto «L'arte contemporanea in carcere: la sfida della speranza», un’iniziativa pensata dalla Santa Sede per tenere un faro acceso sul tema delle carceri per tutto il 2025.

Eppure, da allora, il carcere sembra essersi allontanato anni luce dallo spirito della misericordia invocata da papa Roncalli. Diciamolo senza tanti giri di parole: il carcere è ormai fuori dalla Costituzione. Non ha più nulla a che vedere con la rieducazione, con la tensione al recupero, con il reinserimento. È una landa di cemento e disperazione che risponde a una sola logica: quella della pena come vendetta. E abbiamo ancora davanti agli occhi quelle immagini del calendario della polizia penitenziaria che presenta il volto di uno Stato muscolare, che schiaccia invece di sollevare. Simbolo perfetto di un sistema che ha smarrito ogni traccia di dialogo, ogni brandello di umanità.

Eppure i dati parlano chiaro. Le pene alternative funzionano, il reinserimento è possibile, la recidiva si combatte con il sostegno, non con le sbarre. Ma viviamo in un’epoca viscerale, dove la giustizia si confonde con l’istinto e la sicurezza con la punizione. Una società che disprezza i diritti delle persone detenute non è più sicura: è solo più cieca e più fragile.

E allora eccolo, Francesco, che, con un gesto apparentemente semplice, apre una Porta Santa in un carcere e ci mostra l’unica via che ha senso: quella del perdono, della speranza, della dignità. In un mondo che ha perso la fiducia nell’uomo, il Papa è rimasto l’ultimo custode di una scintilla di umanità. Forse non basta, forse è troppo poco. Ma è tutto ciò che abbiamo.

Dovremmo imparare da quel gesto, da quella porta. Una porta che non è solo un passaggio simbolico, ma un invito a ripensare tutto: la pena, il carcere, la giustizia. Forse è tempo di lasciare entrare un po’ di luce in quel buio opprimente, di ricordare che la forza di uno Stato non si misura dai muscoli che esibisce, ma dalla capacità di credere ancora nella recupero degli ultimi. I gesti di Papa Roncalli e di Papa Francesco sono lì a ricordarcelo: c’è sempre una pietra scartata che può diventare angolare. Basta avere il coraggio di vederla.