Il furore securitario giustizialista degli ultimi trent’anni ha fatto un tabù della parola “indulto”: chi provi a pronunciarla è investito dall’aggressione dei sedicenti “honesti” che tacciano di correità con i criminali tutti coloro che provino a sostenere che le manette non sono la soluzione di tutti i problemi. E allora, incuranti dell’inevitabile accusa di voler riversare nelle strade migliaia di efferati assassini, con lo stesso coraggio che ebbe Prodi nel 2006, gridiamo l’invocazione all’indulto come unico strumento per riportare alla decenza, oltre che alla legalità, la situazione delle carceri italiane, e per ristabilire quell’equilibrio tra violazione e sanzione oggi travolto dalla condizione disumana in cui vengono fatte scontare le pene.

Perché, sia chiaro: se la legge stabilisce e il giudice infligge una certa pena, ma lo Stato fa scontare quella pena in condizioni inaccettabili per qualsiasi essere umano, allora si ha tutti il dovere di riconoscere che l’espiazione in una situazione incostituzionale come quella in cui versano i detenuti italiani è talmente più gravosa rispetto a come dovrebbe essere, da imporre il riconoscimento di una riduzione della sua durata. Così come, di fronte al numero agghiacciante dei suicidi - 57 nei primi sei mesi di quest’anno - e dei tentativi di suicidio, un elementare senso di umanità ci impone di cercare una soluzione capace di ridurre drasticamente, e nel volgere di settimane, la popolazione carceraria. I minuetti sul tema carcere della maggioranza di destra che governa il paese non devono ingannare: sono chiacchiere da bar. La risposta che questo governo ha dato all’emergenza che coinvolge i penitenziari italiani (che non è affatto nuova, va detto, ma perdura da un trentennio) è stata timida, confusa, mai davvero incisiva.

Rispondere all’enormità del problema affermando di voler costruire nuove carceri (lo avessero almeno fatto, forse, sarebbe persino meglio!), significa promettere una soluzione tra dieci anni a un dramma che si consuma oggi, mentre già non si trovano i soldi per reclutare il personale che servirebbe a coprire organici insufficienti di tutti i ranghi degli operatori penitenziari: agenti, servizi sanitari, servizi sociali.

Occorre una risposta in grado di ridurre il numero dei detenuti dagli attuali 61.000 a poco più di 40.000, che è la reale capienza del nostro sistema carcerario per rendere le condizioni dei penitenziari più civili e più umane. E, dunque, serve un atto di clemenza generale, che riduca le pene residue e, quindi, il numero dei prigionieri di uno Stato che, oggi, tiene le persone private della libertà in condizioni atroci: uno stato aguzzino. Questa è la misura più urgente, e solo coloro che hanno una visione miope sulla questione potranno opporvisi.

Cancellando i reati minori ancora da giudicare, quelli dove non c’è violenza contro la persona è anticipando l’uscita dal carcere dei condannati a fine pena, «è come tirare una linea e ricominciare d’accapo», ha sostenuto il Presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato. Ma è chiaro che all’indulto dovrà seguire una riscrittura del sistema dell’esecuzione penale, che faccia diventare il carcere uno strumento residuale rispetto a forme molto più ampie di detenzione domiciliare con obbligo di lavoro, e a un’impostazione in cui all’afflittività che consegue alla privazione della libertà siano concretamente affiancati percorsi di reinserimento sociale dei condannati, perché la recidiva è uno dei principali problemi da aggredire ed è provato che chi è inserito in progetti di recupero attraverso il lavoro torna a delinquere 35 volte di meno (un’enormità) di chi viene semplicemente lasciato a marcire in cella.

Ecco perché non si deve avere paura del tabù, dello strepitare dei manettari, e della liberazione dei detenuti. Indulto: una parola semplice di fiducia nel futuro. Indulto.