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Il volto di Virgilio Mattei, 22 anni, che si affaccia dalla finestra della sua camera da letto, terrorizzato, stravolto e tumefatto dalle fiamme che stanno per divorarlo assieme al fratellino Stefano, 8 anni, è una delle immagini più orrende degli anni di piombo. Un’istantanea sulla ferocia quella guerra senza quartiere tra rossi e neri che insanguinò le città italiane per oltre un decennio e che oggi compie mezzo secolo.
Venne “catturata” dal fotografo di cronaca nera Antonio Monforte, un professionista bravissimo che due anni dopo immortalò un’altra tragica vicenda degli anni 70: i carabinieri che estraggono dal bagagliaio di una 127 Donatella Colasanti, sopravvissuta per miracolo al massacro del Circeo.
È il 1973, quartiere Primavalle, periferia nord-ovest di Roma, una distesa di lotti disadorni, uno dei sobborghi più poveri e difficili della capitale; i Mattei sono la classica famiglia proletaria, vivono in otto in 50 mq, stipati come sardine: Mario, 47 anni fa il netturbino, Annamaria è casalinga, hanno sei figli. Mario Mattei però è anche il segretario della sezione locale del Msi “Giarabub” (il villaggio libico teatro dell’omonima battaglia del1940 tra la decima armata italiana e gli anglo-australiani), un’isola nera in un quartiere rosso, un «covo di fascisti» per gli extraparlamentari di sinistra che lo avevano minacciato più volte.
Volevano proprio dargli una bella lezione a Mario Mattei quella sera. Achille Lollo Marino Clavo e Manlio Grillo, militanti di Potere operaio, arrivano a via Bibbiena che è notte fonda, hanno con sé una tanica riempita con dieci litri di benzina, diserbante e zucchero più una miccia, fanno scivolare il liquido sotto la porta dei Mattei, accendono il fuoco e poi scappano via di corsa.
L’incendio divampa subito nell’ingresso e quando dall’interno aprono la porta in preda al panico per trovare una via di fuga lo sbuffo d’aria spinge le fiamme con violenza verso le camere da letto; tutto si consuma in pochi minuti, forse meno, per Virgilio e Stefano non c’è niente da fare. Sul marciapiede davanti alla palazzina Lollo, Calvo e Grillo hanno lasciato la rivendicazione, un biglietto che recita testuale: “Brigata Tanas – guerra di classe – Morte ai fascisti – la sede del MSI – Mattei e Schiavoncino colpiti dalla giustizia proletaria”. La Brigata Tanas era un gruppuscolo semiclandestino che si muoveva in piena autonomia all’interno di Pot op, prendeva il nome da Giuseppe Tanas, operaio comunista ucciso dalla polizia nel 1947 durante una manifestazione della Cgil che si tenne proprio nelle strade di Primavalle.
È plausibile che il commando non volesse uccidere i figli di Mattei pur accettandone il rischio, come stabilirono i giudici che hanno condannato i tre per omicidio preterintenzionale: doveva essere un’azione dimostrativa che poi è terminata in una tragedia.
Quel che impressiona di nel caso del rogo di Primavalle non è solo la violenza dei fatti, la fatale sequenza di eventi che ha portato alla morte di Virgilio e Stefano, o il fatto che gli attentatori fossero per paradosso dei ragazzotti della borghesia romana mentre le vittime dei “figli del popolo”, ma la cupa ondata negazionista cavalcata da molti esponenti della sinistra: di fronte alla morte di due ragazzi arsi vivi nel proprio letto, hanno infatti reagito con la stessa sprezzante omertà di un clan mafioso, infamando e depistando.
Già il depistaggio, un metodo in voga tra le fila della destra eversiva legata ai servizi deviati e alle cosiddette trame di Stato che per una volta viene usato dai “compagni”. La tesi è un classico del genere: il rogo di Primavalle sarebbe una questione interna ai fascisti, un regolamento di conti nel Msi, mentre il fuoco sarebbe stato acceso addirittura dall’interno dell’appartamento. Esposta con zelo nell’opuscolo di controinchiesta (sic) curato dallo stesso Potere operaio dal titolo Primavalle, incendio a porte chiuse.
Sentite cosa scriveva il collettivo di «militanti» e «giornalisti democratici» che ha lavorato al caso: «La montatura sull'incendio di Primavalle non si presenta come il risultato di un meccanismo di provocazione premeditato a lungo e ad alto livello, tipo strage di stato. “Primavalle” è piuttosto una trama costruita affannosamente, a caldo da polizia e magistratura, un modo di sfruttare un'occasione per trasformare un "banale incidente" o un oscuro episodio - "nato e sviluppatosi nel vermicaio della sezione fascista del quartiere"».
In poche parole un improvvisato complotto di polizia e magistratura per far scattare la repressione contro la sinistra extraparlamentare. Anche il Manifesto insinua dubbi in un articolo pubblicato due giorni dopo la strage: «Secondo un nostro informatore la tanica di banzina non stava sul pianerottolo ma dentro la casa. Inoltre la stanza di Virgilio era completamente devastata come se l’incendio avesse avuto lì il proprio epicentro Forse un’esplosione?». L’inchiesta giudiziaria affidata sostituto procuratore Domenico Sica e le sentenze successive della Corte d’appello di Roma e della Corte di Cassazione (1987) non hanno mai preso in considerazione la pista “interna” priva di ogni fondamento, confermando senza grandi dubbi le responsabilità di Lollo, Calvo e Grillo condannati a 18 anni come autori materiali della strage.
Nel frattempo Lollo, rimesso in libertà in attesa del processo di primo grado, era riuscito a lasciare l’Italia, rifugiandosi in Brasile grazie all’aiuto di Soccorso rosso e a una robusta campagna “innocentista”, tra le personalità più attive Franca Rame che offre a Lollo del denaro per fuggire dal paese e poi scrive al presidente della Repubblica Giovanni Leone una lettera intrisa di complottismo e furore ideologico: «Cosa mi dice presidente della misteriosa telefonata fatta dal padre dei due ragazzi morti immediatamente dopo l’incendio a un tuttora misterioso personaggio? E la telefonata del confidente della polizia, fascista, come ogni confidente della polizia che si rispetti? Gli inquirenti poi non hanno spiegato come sia entrata la benzina in casa dal momento che la porte era chiuse».