Si può azzardare una definizione antitetica a cold case, la formula che designa nel gergo giudiziario anglofono la vicenda processuale avvolta nel freddo per la frustrazione derivante da indagini penali dalle quali non è venuto fuori il nome del colpevole. Quello di Garlasco merita di essere etichettato come «caso a calore latente» nel senso che, nonostante la sentenza definitiva che ha condannato Alberto Stasi, per più di un decennio è rimasta accesa la fiammella del dubbio tra riletture e rivisitazioni del quadro indiziario con avvisaglie di ulteriori piste investigative, una delle quali ora sfociata nella riapertura del procedimento contro un nuovo indagato.

Non deve stupire l’instabilità dell’accertamento resa manifesta dal conflitto delle valutazioni. Il processo per l’omicidio di Chiara Poggi è stato costruito su indizi, come avviene assai spesso nei giudizi in Corte di assise. E quando si utilizza la lente di ingrandimento per esplorare la rete degli elementi di prova a basso titolo di persuasività, come la configurazione delle orme lasciate sul luogo del delitto, si dà vita ad un ragionamento governato dai canoni della logica: la correttezza del rilevamento della circostanza di fatto osservata e il rigore dell’inferenza che conduce all’accertamento.

L’indizio è di per sé equivoco e autorizza una pluralità di letture. Così se la ragnatela dei punti riscontrati nella suola della scarpa la cui orma è disegnata sul pavimento sporco di sangue coincide con le forme rintracciabili sotto una delle scarpe indossate a quel tempo da Alberto Stasi, non si può del tutto escludere che quella particolare morfologia della suola poi possa ritrovarsi in scarpe di tipo simile appartenenti a persone diverse dal sospettato.

E’ per questa ragione che un solo indizio non assurge al valore di prova e gli elementi indiziari devono essere gravi, precisi e concordanti. Proprio come in uno strumento musicale le cui corde producono note diverse che, tutte assieme, regalano un accordo pieno di armonia.

Secondo il primo giudice che si è pronunciato nel caso di Garlasco il quadro indiziario fornito dalla Procura non era per niente armonico ed esibiva parecchie stonature. E’ per questo che ha assolto Alberto Stasi. Ma in quelle risultanze, ritenute dissonanti in un giudizio abbreviato, altri giudici hanno invece scoperto una consonanza tale da giustificare la condanna.

La pendolarità della valutazione indiziaria fa inevitabilmente accendere i riflettori sulla fisionomia del giudice che è chiamato a decidere. Nel sistema vigente nel nostro Paese, l’organo giudicante dei più gravi delitti, la Corte d’assise, siede in udienza in una formazione mista in cui due togati deliberano unitamente a sei giudici popolari. Non è stato così fino al 1930 quando il fascismo ha abolito la giuria nella sua formazione di corpo laico autonomamente investito del potere di decidere sulla responsabilità dell’imputato. E nelle radici di questo istituto, nato nel processo angloamericano, si scorge la ricerca di una razionalità estratta dalla saggezza popolare, che prescinde dai tecnicismi degli uomini in toga.

Questo appello alla coscienza è stato pensato anche come antidoto al moto pendolare della valutazione indiziaria che si sublima nella discussione in camera di consiglio. Ed è per questo che, nel processo angloamericano, le impugnazioni contro il verdetto della giuria sono ammesse con il contagocce, sul presupposto che bisogna evitare le rimasticature del fatto, qualcosa di simile al gioco di una roulette senza fine.

Qualcuno pensa oggi che contro l’esasperato soggettivismo nell’apprezzamento del valore degli indizi possa giovare il ricorso alla prova scientifica. Ne offre un esempio l’itinerario dell’attuale procedimento contro il nuovo indagato del delitto di Garlasco, che viene sottoposto alla prova di comparazione del suo DNA con le tracce genetiche estratte sulle unghie della sventurata Chiara. Bisogna però guardarsi dal cadere nella esaltazione fideistica della prova scientifica. Quando deve immergersi nei fatti del passato, la scienza finisce per dover fare i conti con molteplici limiti.

Ad esempio, nelle indagini sul delitto di Garlasco, si dovrà verificare se la catena di conservazione del materiale genetico è stata rispettata così da garantire l’attendibilità dell’accertamento scientifico. E poi sorgeranno sicuramente dispute infinite sul metodo usato dal consulente del pubblico ministero per estrarre il DNA dal materiale biologico.

Insomma, anche la prova scientifica finalizzata a far luce sul come e sul chi di una condotta delittuosa offre un terreno pieno di aspetti problematici. Gli inquirenti si dovranno anche far carico di un ulteriore obbligo investigativo per avere la prova regina al fine di inchiodare alle sue responsabilità il colpevole dell’omicidio di Chiara Poggi.

La Cassazione richiede per la condanna non solo l’esistenza di indizi gravi e univocamente orientati, ma anche la prova del movente. I giudici del processo contro Alberto Stasi si erano autoesonerati dal motivare sulle ragioni che avrebbero indotto il giovane a colpire a morte la fidanzata. Ma nel nuovo orizzonte investigativo prospettato in questi giorni, il pubblico ministero non potrà esimersi dal provare perché il soggetto al centro delle indagini avrebbe deciso di togliere la vita a Chiara nella sua casa di Garlasco.

Il movente è come un cemento che consolida ed accresce il tasso di persuasività degli indizi. Sempre che il clamore mediatico non imponga pericolose scorciatoie, fino a far crollare i pilastri della legalità e lo scudo del ragionevole dubbio.