È capitato spesso nel nostro Paese che singoli fatti di cronaca abbiano indotto i governi ad assumere iniziative istantanee in materia di politica criminale, sull’onda emotiva dell’opinione pubblica, magari condizionata dal rimbalzare delle notizie sui media, spesso moltiplicatori dell’ansia securitaria. Molte volte è accaduto che eventi traumatici della cronaca nera abbiano convinto i decisori politici a inasprire le pene per un determinato reato, a rendere obbligatoria una misura cautelare in carcere per i presunti autori di delitti particolarmente odiosi, a introdurre nuove ostatitività alla concessione di misure alternative o addirittura nuove fattispecie di illecito o nuove aggravanti per coprire contesti devianti di particolare allarme sociale.

È accaduto con i reati a sfondo sessuale, con il fenomeno dell’immigrazione irregolare, con i reati di genere, con i reati di corruzione. Si è trattato di iniziative di politica estemporanee, intrinsecamente giustificate da una forte spinta emotiva collettiva, che proprio per questa ragione sono infine cadute sotto la scure della Corte costituzionale o sono state oggetto di ripensamento da parte dello stesso legislatore. Ma ciò che è accaduto e che sta accadendo ora con il cd. “pacchetto sicurezza” ha qualcosa di imprevisto e di innovativo, in quanto non si tratta di norme insufflate da sentimenti viscerali di insicurezza e dalla sensazione diffusa di un accerchiamento da parte di una criminalità aggressiva e non altrimenti controllabile. Difatti, non sono solo i dati statistici a rassicurarci in ordine alla costante diminuzione dei reati nel nostro Paese, ma è anche vero che i fatti criminali più sconcertanti che hanno caratterizzato le più recenti cronache giudiziarie, sono apparsi a tutti come fenomeni maturati all’interno di ambiti familiari o frutto di devianze occasionali e incontrollabili che non hanno pertanto prodotto indiscriminate istanze securitarie dal basso. Persino i fenomeni relativi alle rivolte carcerarie sono stati caratterizzate da moti estemporanei condizionati più dal disagio che da vere e proprie spinte criminali, privi di una qualche organizzazione e di alcuna finalità eversiva.

Insomma, i fenomeni più recenti sembrano aver bisogno più che di dure risposte repressive, di ascolto della realtà, di una presenza dello Stato fatta di assistenza, di prevenzione e di recupero. Contesti che necessitano dunque di più vasti e complessi interventi culturali piuttosto che di criminalizzazione del dissenso e di inasprimenti sanzionatori. Si tratta, infatti, di aree problematiche che più ragionevolmente potrebbero essere gestite attraverso una maggiore efficienza delle amministrazioni e una più oculata presenza delle istituzioni.

Ciò a cui oggi assistiamo è dunque qualcosa di nuovo e di diverso. Una sorta di pan- penalizzazione preventiva a vasto spettro, che implica la creazione di nuove fattispecie di reato, la criminalizzazione di condotte che non erano state mai ritenute offensive, uno sproporzionato aumento delle sanzioni a tutela univoca dei tutori dell’ordine, l’introduzione di nuove ostatività alla concessione di benefici penitenziari, l’aumento delle prerogative della polizia giudiziaria. Un disegno riformatore di evidente quanto irragionevole impronta repressiva e securitaria, introdotto sostanzialmente “a freddo”, che non risponde infatti, contrariamente a quanto accaduto più volte nel passato, ad alcuna spinta sociale, ad alcun evento destabilizzante. È quanto era già accaduto all’esordio di questo governo, con la legge anti- rave. Una serie di misure prese nell’ambito della regolamentazione di un fenomeno privo di veri connotati criminali, di modesta incidenza e allarme sociale, per il quale l’ordinamento è stato dotato di misure sproporzionate quali l’intercettazione e la confisca e di un armamentario sanzionatorio degno di ben altri fenomeni illeciti.

I principi di ragionevolezza, di proporzionalità e di offensività, propri di quel diritto penale liberale al quale dovrebbe tendere ogni moderno Stato di diritto, vengono evidentemente travolti. Ma viene anche a cadere ogni possibile ipocrita giustificazione dell’aver dovuto rispondere a una irresistibile sollecitazione emotiva dal basso, instaurandosi, invece, una costruzione identitaria deliberatamente impostata sull’impronta di un “diritto penale del nemico” e su di una responsabilità da “colpa d’autore”, tipica dei regimi autoritari, nella quale la stigmatizzazione penale si attiva non per quello che eventualmente hai fatto ma per “quello che sei”. Si tratta di un voltare pagina definitivo su quel diritto penale liberale che avrebbe dovuto al contrario ispirare l’azione riformatrice di questo governo.