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Il giurista Giovanni Fiandaca
In un recente intervento nel settimanale di approfondimento di questo giornale, Giorgio Spangher ha delineato un quadro ricostruttivo delle direttrici di tendenza del sistema-giustizia, con particolare riferimento al processo penale. Anticipo che condivido in larga misura l’analisi svolta dal valoroso processualista, a cominciare dalla pare in cui egli rileva che da una certa fase storica in poi - segnata prima dall’emergenza terroristica e poi dall’escalation della criminalità mafiosa – è emersa la tendenza a concepire il processo penale, più che come meccanismo di accertamento di singoli e circoscritti reati, come strumento di lotta e contrasto a fenomeni criminali di ampia portata: con conseguente rottura di quell’equilibrio tra finalità repressiva e rispetto delle garanzie individuali che ogni procedimento penale dovrebbe, almeno in linea teorica, riuscire a mantenere.
Ma vi è di più. La propensione a utilizzare il processo come mezzo di lotta ha, altresì, preso piede nell’ambito delle strategie di contrasto alla corruzione cosiddetta sistemica: come emblematicamente dimostra l’esperienza giudiziaria milanese di Mani Pulite, di cui quest’anno è stato celebrato il trentennale, anche in questo caso l’obiettivo principale preso di mira dai magistrati inquirenti è finito col consistere, più che nell’accertare singoli episodi corruttivi, nel colpire e disarticolare il sistema della corruzione come fenomeno generale.
Quale che sia il settore specifico di criminalità collettiva di vota in volta considerato, l’impiego del processo come una sorta di macchina da guerra è destinato a condizionare anche la fase preliminare delle indagini. Pubblici ministeri e polizia giudiziaria sono infatti indotti ad aprire grandi inchieste-contenitore ad amplissimo raggio su ambienti e persone potenzialmente sospettabili di relazioni criminose, ancor prima però di disporre di elementi di conoscenza relativi a possibili ipotesi specifiche di reato: piuttosto, l’indagine funge così da strumento esplorativo per andare alla ricerca di eventuali fatti penalmente rilevanti, con l’effetto di dilatare smisuratamente i tempi dell’accertamento giudiziario e di contestare non di rado reati di problematica e incerta configurabilità, con conseguente spreco di risorse materiali e umane . Prendendo implicitamente le distanze da un simile modello d’intervento, ad esempio il nuovo procuratore di Palermo Maurizio De Lucia ha dichiarato nel suo recente discorso di insediamento: «Indagheremo dove la legge ci impone di farlo e nel rispetto delle regole, ma processeremo dove saremo convinti di arrivare alle condanne. I processi che si devono fare saranno solo quelli che vanno fatti» (cfr. Giornale di Sicilia 16 ottobre 2022). E’ una apprezzabile dichiarazione d’intenti, peraltro in linea con alcune innovazioni normative della riforma Cartabia che convergono nello scoraggiare le investigazioni esplorative.
Certo, l’idea del processo come arma di lotta ha avuto motivazioni storiche che – come anticipato – riconducono alla presenza o recrudescenza nel nostro paese di gravi forme di criminalità sistemica, che il potere giudiziario si è trovato a dover fronteggiare anche per una specie di delega tacita ricevuta da un potere politico incapace di (o poco disposto a) mettere in campo strategie di intervento idonee a incidere in profondità sulle cause genetiche dei fenomeni criminali da contrastare e prevenire.
Ma – non soltanto a mio avviso – ha avuto in proposito un peso una componente soggettiva a carattere ideologico o latamente culturale, che ha a che fare con la auto-percezione di ruolo almeno di una parte della nostra magistratura penale e che in qualche misura perdura a tutt’oggi: mi riferisco alla concezione (presente in origine soprattutto tra i magistrati ‘di sinistra’, ma poi estesasi con una certa trasversalità) che ravvisa la principale missione della giurisdizione penale nell’esercizio di un controllo di legalità a tutto campo (sull’attività dei pubblici poteri, prima ancora che sulle condotte dei cittadini comuni), nella difesa delle istituzioni democratiche dalle minacce della grande criminalità, nella promozione del rinnovamento politico e nella moralizzazione collettiva.
Questa concezione della giurisdizione, oltre a determinarne una sovra-esposizione politica con conseguenti squilibri nell’ottica della divisione dei poteri istituzionali, e a condizionare – come già detto la gestione del processo penale strettamente inteso, produce in verità effetti pure sul modo di interpretare e applicare le norme del diritto penale sostanziale, che definiscono cioè i presupposti generali della punibilità e gli elementi oggettivi e soggettivi dei vari tipi di reato. Quanto più infatti la giustizia penale assume un’impronta combattente di tipo simil-belligerante, tanto più il magistrato interprete-applicatore delle norme incriminatrici sarà tentato di cavarne il massimo della punibilità, adottando interpretazioni estensive o addirittura analogiche (ancorché in diritto penale formalmente vietate!) che forzano o manipolano il contenuto testuale delle fattispecie legali; con buona pace dei principi di riserva di legge e tipicità, che dovrebbero in linea teorica fungere da presidi garantistici invalicabili.
A neutralizzare o indebolire l’efficacia orientativa del principio della tipicità legale delle incriminazioni concorre un fenomeno connesso, che la dottrina di matrice professorale ha denominato processualizzazione delle categorie sostanziali. Che vuol dire? Per rendere più accessibile il significato di questa espressione ostica, cerchiamo di esplicitarlo così: si allude alla mossa giudiziale di spostare sul terreno della prova processuale la soluzione di nodi problematici che attengono, invece, alla previa determinazione dei presupposti della responsabilità sul versante del diritto sostanziale, in conformità appunto al principio di tipicità penale. Per esemplificare, si pensi al problema, ricorrente nei processi di mafia, di definire il partecipe punibile di un’associazione mafiosa.
Orbene, il predetto fenomeno della processualizzazione si verifica ogniqualvolta l’organo procedente, piuttosto che partire da una precisa e vincolante definizione generale di che cosa secondo la legge penale debba intendersi per “partecipe”, e ricercare poi gli elementi di prova corrispondenti, stabilisce con ampia discrezionalità se un certo soggetto rivesta tale ruolo: decidendo sulla base sia dei riscontri probatori contingentemente disponibili, sia delle esigenze repressive valutate di caso in caso (così, ad esempio, la soglia minima della partecipazione associativa punibile è stata dalla giurisprudenza più volte individuata nella mera sottoposizione al rito di affiliazione, non ritenendosi necessario anche il successivo ed effettivo compimento di concreti atti espressivi del ruolo di associato, come viceversa richiede ai fini della punibilità l’orientamento più garantistico predominante nella dottrina accademica).
E’ forse superfluo esplicitare che un tale stile decisorio contraddice, in maniera vistosa, i principi di un diritto penale di ascendenza illuministico-liberale. In una recente rievocazione, promossa dalla Camera penale di Palermo, del celebre maxiprocesso alla mafia siciliana istruito ormai più di un trentennio fa da Giovanni Falcone e da alcuni suoi colleghi di allora, si è ridiscusso del tormentoso problema di fondo di come rendere compatibile il contrasto giudiziario alle mafie con un modello di giustizia penale liberale e con i principi del giusto processo.
Partecipando alla discussione, ho ricordato che lo stesso Falcone – come risulta da svariati suoi scritti ricchi di acume analitico e propositivo, successivamente raccolti nel volume Interventi e proposte (Sansoni, 1994) – aveva ben chiari i non pochi inconvenienti dei maxiprocessi in termini di gigantismo processuale e di conseguente oggettiva difficoltà di accertare in maniera approfondita le colpevolezze individuali dei numerosi soggetti sottoposti a giudizio: e che, rendendosi altresì conto della tendenziale incompatibilità tra i processi di grandi dimensioni e il nuovo rito di stampo accusatorio (beninteso, considerato nella versione originaria) allora ancora in gestazione, egli raccomandava di privilegiare non già la strada dell’illecito di associazione (dispositivo di incriminazione comodo e servizievole anche per la sua idoneità a consentire scorciatoie probatorie), bensì la ricerca dei singoli reati-scopo rientranti nel programma associativo, e di concentrare su di essi la verifica processuale.
Un metodo d’indagine, questo, a suo giudizio per un verso più efficace per rendere meno evanescente la prova e, per altro verso, più rispettoso delle istanze di garanzia. Ritengo che questi suggerimenti di Giovanni Falcone meritino di essere, oggi, ripresi e rimeditati. A maggior ragione, considerando che la tendenza giudiziale all’utilizzo della fattispecie associativa è andato sempre più diffondendosi anche in settori criminosi che poco hanno a che fare con la criminalità organizzata, sovrapponendosi spesso in maniera indebita al concorso criminoso in uno o più reati specifici.