Un’occasione persa. O forse, semplicemente, un’occasione che non abbiamo voluto cogliere. Era il 23 ottobre 2014 quando Papa Francesco, parlando all’Associazione Internazionale di Diritto Penale, pronunciò uno dei discorsi più lucidi, coraggiosi e profetici che io ricordi su giustizia, pena e dignità della persona.

Non parlò ex cathedra, ma come uomo tra gli uomini. Eppure, da avvocato penalista, non ho potuto che avvertire la forza di un messaggio che andava dritto al cuore della nostra funzione. Quel discorso non era un’omelia: era una requisitoria. Era l’atto d’accusa di un uomo di fede contro il populismo penale, contro la vendetta travestita da giustizia, contro i sistemi repressivi che umiliano la persona nel nome della sicurezza. Francesco denunciò senza mezzi termini la dilagante tendenza a costruire nemici sociali, a usare il carcere come unica risposta ai mali collettivi, a dimenticare che la pena ed il carcere soprattutto devono (o dovrebbero essere) sempre extrema ratio.

Disse che l’ergastolo è una pena di morte nascosta, che la carcerazione preventiva abusiva è una forma contemporanea di pena illecita, che l’isolamento è tortura. Disse parole che ancora oggi mi bruciano dentro: «Si tortura non solo nei centri clandestini, ma anche nelle carceri ufficiali, nei commissariati, nei reparti psichiatrici». Ma soprattutto, ricordò a noi giuristi qual è la nostra missione: contenere gli eccessi del potere penale, difendere i diritti dei più vulnerabili, opporci alla deriva punitiva anche quando è scomodo, anche quando è impopolare.

Eppure, come spesso accade con le parole scomode, vennero ascoltate poco. E, tra quei pochi che ascoltarono, ancora meno furono coloro che ne furono davvero scossi. Quante volte in questi anni si è visto, in aula, il trionfo della semplificazione, della paura, del sospetto trasformato in condanna? Quante volte si deve spiegare, quasi giustificare, perché si difende l’indifendibile, perché si invoca la dignità anche di chi ha sbagliato? La verità è che quel discorso è ancora lì, vivo, pronto.

E il fallimento non è stato di Papa Francesco. È nostro. Di noi avvocati, magistrati, legislatori, giornalisti, cittadini. Perché noi abbiamo preferito cedere al richiamo facile del giustizialismo piuttosto che metterci in discussione. Si deve ripartire da quelle parole. Rileggerle, farle leggere. Perché chi lavora nel diritto penale sa che ogni condanna che calpesta la dignità, ogni pena sproporzionata, ogni processo sommario, non rafforza la giustizia: la tradisce. E se è vero che l’uomo può essere crudele, allora il diritto, come disse il Papa, deve essere la sua cura. Non un’arma in più. Abbiamo ancora tempo per ascoltare. Per cambiare rotta. Ma serve coraggio. E coscienza.