C’è voluto un po’ ma finalmente, a distanza di due giorni dal Consiglio dei ministri che l’ha approvato (lunedì), il decreto legge contenente Disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale ha superato il vaglio del Presidente della Repubblica, che ai sensi dell’art. 87 della Costituzione fra l’altro «emana i decreti aventi valore di legge».

Nel testo, sostitutivo di precedente regolazione di rango interministeriale, i Paesi definibili sicuri ai fini del ritorno del migrante cui non sia riconosciuta la protezione internazionale da parte del nostro Paese son ridotti a 19, con l’esclusione dei precedentemente compresi Colombia, Camerun e Nigeria. Ciò per venire incontro - nelle parole di esponenti del governo - alla sentenza della Corte di giustizia Ue del 4 ottobre scorso, resa in via pregiudiziale circa un caso di negazione della protezione a un cittadino moldavo da parte della Repubblica Ceca.

Ma, conseguentemente, l’esigenza è quella di superare i 12 decreti della sezione specializzata del Tribunale di Roma di «non convalida» del trasferimento in Albania di altrettanti stranieri per i quali era stato avviato un percorso procedurale accelerato, comprensivo di dislocazione territoriale, consentito dal Protocollo italo- albanese del 6 novembre 2022 sul «rafforzamento della collaborazione in materia migratoria» (i “delocalizzati” erano inizialmente 16 ma riguardo a 4 si era incorsi in errore perché in condizioni o di minore età o di vulnerabilità già contemplate dal Protocollo come impedimento al trasferimento).

I decreti del Tribunale, adottati da sei giudici diversi compresa la Presidente di sezione Sangiovanni, si rifacevano alla sentenza pregiudiziale interpretativa della direttiva UE 2013/ 32, in materia di procedure comuni agli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale. In ragione dell’effetto sostanzialmente erga omnes di siffatte decisioni giudiziarie della Corte Ue ne hanno affermato l’applicazione in Italia fra l’altro in modo tale da negare la qualifica di Paese «sicuro» d’origine del migrante quando rispetto a quel Paese, «sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale», NON «si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (…) né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o internazionale». Così si esprime il punto 52 della sentenza sopra ricordata della Corte Ue anche con riferimento a ulteriore direttiva, la 2011/ 95, che stabilisce norme sull’attribuzione della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, aggiungendosi all’altra che interviene sulla procedura.

E infatti i decreti romani prendono atto, ad esempio riguardo all’origine egiziana del trattenuto in Albania (decreto n. R. G. 42251/ 2024), che questo Stato, «nelle conclusioni della scheda- Paese dell’istruttoria del Ministero degli affari esteri (…), basate su informazioni tratte da fonti qualificate di riferimento, è definito Paese di origine sicuro ma con eccezioni per alcune categorie di persone,: oppositori politici, dissidenti, difensori dei diritti umani o coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione di cui all’art. 8, comma 1, lettera e) del D. lvo 19 novembre 2007, n. 251». O ancora, riguardo all’origine dal Bangladesh ( decreto n. R. G. 42260/ 2024), si rileva che nelle conclusioni dello stesso Ministero, «basate su informazioni tratte da fonti qualificate di riferimento, il Bangladesh è definito Paese di origine sicuro ma con eccezioni per alcune persone appartenenti alla comunità LGBTQ+, vittime di violenza di genere (…), minoranze etniche e religiose, accusati di crimini politici, condannati a morte, sfollati climatici».

Ne consegue che il Paese dei suddetti trattenuti in Albania «non può essere riconosciuto come Paese sicuro» per violazione delle «condizioni sostanziali della qualificazione (…) enunciate nell’allegato I della direttiva 2013/ 32». Il ribadire da parte del nuovo decreto, fra i “Paesi sicuri”, Stati come gli ultimi due appena nominati non esenta comunque da futuri interventi giudiziari che, facendosi carico di un adeguato onore della prova nel caso concreto e pur nell’articolazione di ricorsi possibili, disapplichino la norma benché contenuta in una legge ordinaria di trasformazione del decreto legge.

Si tratta infatti di tener conto dell’art. 11 della Costituzione in ordine, come più volte sottolineato dalla Corte costituzionale ( fra tutte v. la decisione 170/ 1984), alla superiorità della norma dell’Ue su quella contrastante nazionale, la quale ultima va disapplicata quando non interpretabile conformemente alla regola dell’ordinamento euro- unitario di applicabilità diretta. E ben può essere di applicabilità diretta un principio sancito dalla Corte di giustizia e una regola pur contenuta in una direttiva. Ovvero è l’art. 117, co. 1, della Costituzione a poter determinare il rinvio da parte del giudice ordinario in Corte costituzionale della norma interna di legge contrastante col diritto Ue quando non di diretta applicabilità nazionale.