“Sono contro l’ergastolo, innanzitutto perché non riesco a immaginarlo”. Mi è tornata in mente questa frase di Pietro Ingrao (di cui quest’anno ricorre il decennale dalla morte), un politico (e tante altre cose) capace di riflettere sui temi grandi con un pensiero che scavava la superficie delle cose e andava in profondità.

Forse per questo, non certo perché non cogliesse l’abominio della pena perpetua, e nemmeno perché ne ignorasse i numeri che la connotano (circa 1900 sono gli ergastolani, cresciuti quasi del 50% dal 2006 al 2024, e soprattutto quintuplicati dal 1992, sebbene il numero annuo di omicidi sia rimasto costante), si diceva incapace di immaginare la ragione per la quale ancora valga, e sempre più, l’indecenza del raddoppio del male, e incapace di arrendersi all’idea che lo Stato si prenda la vita di un altro, replicando al male con la morte per pena.
Basterebbe questo, a marcare a fuoco di ignominia la bozza del ddl governativo circolata a seguito del Consiglio dei ministri della scorsa settimana, con la quale alla vigilia dell’8 marzo, ça va sans dire, la ministra Roccella (accompagnata da tre sue colleghe e dai ministri dell’Interno e della Giustizia) ha presentato il testo che dovrebbe introdurre nel nostro ordinamento il reato di femminicidio.
Si comincia con un’eresia: l’importante è l’ergastolo, perché “a questo non si arriva quasi mai”, mentre le tricoteuse presenti annuiscono senza ritegno, con la classica postura del modello machista che vorrebbero avversare.
Allora vediamola, questa “rivoluzione culturale”: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna, o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo”.
Seguono altre amenità (aumenti di pena per una serie di reati da codice rosso, irrigidimenti cautelari e penitenziari, audizione di vittime e parenti in caso di richieste difensive), con l’annuncio (una minaccia) di varare un Testo unico che contenga “i diritti delle donne e loro forme di negazione e tutela”. Il Codice di Hammurabi.
Immancabile la chiosa del ministro Nordio, secondo cui “la figura della vittima o dei parenti viene valorizzata perché diventa a tutti gli effetti protagonista della dialettica processuale”. La Repubblica del dolore e del rancore, della vendetta. Altro che Giustizia riparativa!
In disparte il ricorso ad una grammatica normativa che fa strame della indispensabile tassatività del testo (odio o discriminazione in quanto donna, repressione di diritti o libertà, o l’espressione della sua personalità), esposto alla più personale lettura del giudicante (che naturalmente verrebbe immediatamente criticato), con inevitabile rischio di eterogenesi dei fini (a voler credere alle intenzioni del Governo), il neo delitto di femminicidio prenota prima di nascere un posto nell’aula della Consulta, oggi finalmente tornata a ranghi ordinari.
Non ci stanchiamo di dirlo, e i numeri lo confermano; non è la minaccia che ferma la mano dell’uomo (e della donna), ma un’educazione e un investimento in strumenti inclusivi e capaci di dare un senso all’articolo 3, comma 2, della Costituzione. Altrimenti c’è il circo, con gli animali in gabbia, e i bravi cittadini che la domenica li vanno a guardare, buttando noccioline.