Il “caso Toti”, scoppiato con grande clamore mediatico in primavera, si avvia dunque a concludersi con un accordo sulla pena tra accusa e difesa che si fonda su un ridimensionamento dell’originaria ipotesi accusatoria. Se per certi versi si tratta di un epilogo impensabile fino a prima della pausa estiva (e della revoca degli arresti domiciliari disposta subito dopo le dimissioni di Giovanni Toti dalla presidenza della Regione Liguria), ciò che più colpisce è la moltitudine di commenti e di reazioni da parte dei media e della politica accomunati da un “equivoco” che non è solo concettuale: manifestare consenso al patteggiamento, infatti, non significa riconoscere la propria colpevolezza.

La questione non è meramente nominalistica o teorica, perché l’istituto – nelle intenzioni del legislatore – poggia sulla non ammissione di responsabilità da parte dell’imputato, cui si ricollegano una serie di “vantaggi” – rafforzati dalla riforma Cartabia – tesi ad agevolare la scelta della “via breve” della definizione anticipata del procedimento.

Non costituisce invero una replica del plea bargaining, istituto nordamericano cui pure si ispira e che peraltro si inserisce in un ordinamento nel quale vige la discrezionalità dell’azione penale che consente al prosecutor di modificare a suo piacimento l’accusa, magari derubricandola per rendere più appetibile l’accordo. Oltreoceano, infatti, il procedimento muove proprio dalla dichiarazione di colpevolezza dell’accusato (guilty). Non così da noi. Né possono bastare alcune pur autorevoli opinioni espresse dalla Cassazione sul punto a sovvertire il quadro normativo vigente. Che la scelta del nostro legislatore italiano sia per certi versi ambigua è indubbio: come si fa ad irrogare una pena senza accertare la responsabilità dell’imputato? Cosa vuol dire la sentenza “è equiparata” a una pronuncia di condanna? Un bizantinismo? Forse, ma è altresì vero che vi sono ragioni di politica criminale alla base della normativa, in primis quella di incentivare l’adesione al rito. Ed è sulla disciplina positiva che si modellano le strategie processuali, le cui valutazioni quindi non dovrebbero tradursi in distorsioni (consapevoli) e in messaggi ingannevoli, seppur dettati da intenti propagandistici e/ o elettorali.

Come accadeva con la sentenza di assoluzione per insufficienza di prove ai tempi del codice Rocco, considerata una “quasi- condanna” in grado di proiettare sull’imputato un’ombra indelebile (“in fondo è stato fortunato, non sono state trovate tutte le prove necessarie per ritenerlo responsabile”), oggi la sentenza di patteggiamento è ritenuta una “condanna non detta”, che sottintende un’implicita dichiarazione di colpevolezza, quando invece l’imputato può essere indotto a praticare tale via, ad esempio, per uscire prontamente dalla vicenda giudiziaria e dai suoi clamori, stante i tempi spesso irragionevoli della giustizia penale.

E allora, anche a costo di apparire un po’ drastici, le reazioni extra- giudiziarie – sovente maliziose – a epiloghi processuali di tal genere certificano in qualche modo il “fallimento culturale” del codice 1988. Se a livello di opinione pubblica – e non solo – passa il messaggio che chi patteggia è colpevole, se più o meno autorevoli firme del giornalismo su tale assunto costruiscono le loro analisi e i loro commenti, se importanti esponenti politici dell’opposizione e persino un ex ministro della Giustizia – che pure tra le dinamiche processuali dovrebbe muoversi con disinvoltura – ritengono la strada intrapresa dall’imputato un implicito riconoscimento di responsabilità, è evidente che qualcosa non ha funzionato nell’indispensabile processo di compenetrazione tra il codice di rito e la società, nonostante i quasi trentacinque anni trascorsi dalla sua entrata in vigore ( e il ridimensionamento della sua originaria vocazione accusatoria).

Ogni Paese ha il codice che si merita, potremmo dire riprendendo e in parte “volgarizzando” la nota affermazione secondo cui il codice di procedura penale esprime il grado di civiltà di un popolo. Ma se i valori che sottintende non sono in grado di penetrare nella coscienza collettiva, rimanendo estranei al background di ciascuno, o – peggio – vengono contraffatti, vuol dire che quel codice non appartiene veramente alla comunità.

È un corpo estraneo, da estirpare magari riportando in auge discipline passate, che pensavamo forse ingenuamente di avere accantonato per sempre alla luce di una crescita che, evidentemente, non c’è stata.