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GIOVANNI TOTI, POLITICO
Nel mese di agosto la polemica tra la politica e la magistratura o meglio tra i politici e i magistrati si è acuita tanto da scadere in una bega e un turpiloquio rifiutato da chi ha un minimo di buonsenso.
Lo scontro tra i due poteri ha origini antiche, dall’antica Grecia per il conflitto tra “i signori del diritto”, come uno studio di grande spessore del professor Ortensio Zecchino spiega e dimostra, ma quando scade a scontro di cortile risulta insopportabile e deleterio. D’altra parte se a ogni indiscrezione della stampa su una qualunque pretesa iniziativa giudiziaria, gli esponenti politici reagiscono e minacciano di riformare la giustizia è inevitabile la protesta dei magistrati e della Associazione che ritiene di essere punita da un legislatore “avversario”. Esaminiamo qualche avvenimento che negli ultimi mesi ha posto in contrasto i politici (non la politica) con la magistratura.
La vicenda del presidente della Regione Liguria Toti è certamente emblematica per dare un giudizio sereno e obiettivo sul ruolo atipico che la magistratura vuole assumere in questo periodo storico che in verità dura da molto tempo, da quando il potere politico ha dimostrato segni di crisi. Si dice sbrigativamente che c’è una parte anche rilevante della magistratura politicizzata: è vero ma è un giudizio sommario e approssimativo che va approfondito.
Il magistrato, come tutti gli esseri viventi, vive in una società, quella attuale, moralistica e rancorosa dove trionfa il personalismo che ha fatto perdere alla società quella solidarietà e quella unità che aveva caratterizzato gli anni del dopoguerra, e ahimè! Influenzato!
La legislazione è figlia di questo clima che ha fatto perdere valori e consistenza storica e la cultura di riferimento, e quindi è moralistica imperfetta e primitiva, per cui la delega che il legislatore dà a chi deve applicare la norma è ampia e al tempo stesso “incerta”. E questa è la principale patologia. Bisogna riconoscere però che la magistratura ha preteso e pretende questa delega perché ha possibilità di poter “interpretare” in maniera assoluta, ma al tempo si lamenta: sta di fatto che l’apparato del ministero di Giustizia fatto di magistrati è tutto proteso a questo fine!
Orbene siccome la magistratura è in qualche modo irresponsabile perché “autonoma” sotto tutti gli aspetti, mostra sempre di più un ruolo anomalo, etico, di chi è chiamato non ad applicare la norma ma a far vincere il bene sul male. C’è chi strumentalizza questo politicamente, ma la cosa pericolosa per l’equilibrio democratico è questa tendenza - cultural - moralistica che è diventata comune a tutti gli operatori della giustizia, accettata dalla società che ha tanto rancore sociale. Il cittadino ormai critica il giudice che assolve e non condanna per cui la giustizia è solo la condanna; e la pena è solo vendetta soprattutto se “pena esemplare”.
Non si chiede più giustizia ma condanna, anche perché la vittima, come ha spiegato magistralmente il professor Vittorio Manes, è sempre più protagonista “prima e fuori dal processo” in modo da “modificare i principi di fatto che guidano e debbono guidare l’accertamento penale. Il ruolo della vittima ha tale “autorevolezza morale” che la si vuole inserire inutilmente nella Costituzione per avere una tutela che è naturalmente nella natura del processo.
Se questo è il quadro di riferimento la presa di posizione, questa volta formale ed esplicita del Pm e del giudice di Genova nei confronti di Toti nel pretendere di attuare le dimissioni da presidente della Regione, è un intervento anomalo e irrituale ma è legato alla pretesa di liberare la società ligure da una politica ritenuta negativa attraverso indagini giudiziarie prive ancora di prove. Quando anche nel collegio del riesame per attuare la libertà si dice che non è possibile la scarcerazione di Toti per la sua “incapacità ad ammettere il reato”, si svela senza remore il ruolo etico del magistrato che vuole la catarsi del presunto reo e della società.
Leggendo queste motivazioni mi è venuto in mente quello che qualche anno fa mi raccontò un mio congiunto, valente magistrato, che interrogando un detenuto e probabilmente spiegandogli il disvalore del reato, si sentì dire “Lei faccia il giudice perché io faccio l’imputato” ed evidentemente non accettava giudizi morali. Credo che il magistrato ebbe una lezione di procedura penale e di deontologia professionale che gli è valsa per tutta la vita.
Altri episodi sarebbe lungo ricordare degli ultimi mesi e certamente non mi soffermo sulla signora Arianna Meloni, meglio conosciuta come sorella del presidente del Consiglio. È invece importante ricordare il contenuto dell’archiviazione del giudice sulla querela presentata da Davigo sulle sue vicende giudiziarie contro il direttore del Foglio, che segna un punto importante di interpretazione del ruolo e delle modalità a cui la stampa deve attenersi nel criticare o nel raccontare i fatti.
Claudio Cerasa sul Foglio fa un ampio commento che vale la pena approfondire, ma una cosa è importante da osservare subito che il giustizialismo sfacciato e insopportabile di Davigo è stato stigmatizzato da un giudice che conosce la Costituzione, che ha contezza del suo ruolo indipendente capace di regolare gli accadimenti della società e degli individui che debbono essere in armonia “per far vivere la democrazia”.
Ecco due criteri diversi per esercitare il difficile ruolo del magistrato che deve essere lontano mille miglia dal moralismo dannoso per le persone e per la società.
Se non affrontiamo questi problemi che sono pregiudiziali a tutte le altre riforme non risolviamo la “questione giustizia” e lo scontro si inasprisce; la colpa sarà sempre del legislatore che se approva leggi come il “traffico di influenze”, per fare un solo esempio, che aumenta il populismo penale e il circo mediatico, il magistrato sarà sempre più tentato a interpretare la legge secondo le sue idee politiche o morali o filosofiche!