Questo fine settimana ha parlato Mario Draghi. E quando parla Draghi, occorrerebbe far silenzio, sprofondare nella poltrona e ascoltare con attenzione una voce che possiede quella rara combinazione di “rigore tecnocratico” e “visione politica”, quella che scavalca le staccionate della nostre polemiche asfittiche per collocarsi dove dovrebbe: in Europa.

Draghi, con tono pacato ma affilato, ha ricordato una verità tanto semplice quanto drammatica: il benessere europeo, i diritti, la stabilità non sono un patrimonio ricevuto in eredità, ma una costruzione fragile, una diga da consolidare con sforzi costanti. E la soluzione non passa attraverso proclami a costo zero, ma attraverso scelte difficili, visioni a lungo termine, azioni concrete: «Se l’Ue emettesse debito congiunto – ha infatti spiegato – potrebbe creare uno spazio fiscale utile a sostenere i periodi di stagnazione economica. Ma senza cambiare i mercati, non se ne esce». Tradotto: basta illusioni. L’Europa, quella casa comune che prometteva diritti e pace, è sul punto di sgretolarsi. Economicamente e socialmente.

Nelle stesse ore, il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, lanciava un monito parallelo. La pace – ha spiegato Monsignore – non è un concetto retorico, ma una pratica quotidiana, e la sua crisi si intreccia con quella della democrazia. Con voce di pastore progressista e di fine osservatore politico, Zuppi ha infatti rilanciato un tema caro a Papa Francesco: la frattura tra popolo ed élite, un divorzio annunciato già nel 2011 quando, da arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio parlava di “democrazia a bassa intensità”, di governi sordi e popoli che urlano. Una politica ridotta a monologo stanco, partiti ormai simili a relitti sfibrati, un mondo globalizzato che ha tolto fiato al “contrasto fecondo” tra idee, trasformando il dibattito in un assolo.

Ed eccoci al punto dolente: Draghi denuncia un’Europa in declino, e Zuppi ammonisce che non c’è pace senza giustizia sociale. E mentre entrambi provano a scuotere coscienze assopite, i magistrati dell’Anm difendono la loro autonomia, ritenuta in pericolo, con una tenacia degna di miglior causa, brandendo la Costituzione come uno scudo – e forse come una spada. Tecnocrazia, Chiesa, magistratura: pezzi di un mosaico che, in assenza dell’attore principale, provano ancora a offrire una visione.

E la politica? Evaporata. Ridotta a balbettii, sondaggi settimanali, promesse da discount che evaporano alla prima luce del mattino. La politica manca. Non più strumento di mediazione e rappresentanza, non più spazio di visione e scontro costruttivo, ma un anonimo cantiere del sopravvivere quotidiano.

Ed è bene tener conto che Draghi fotografa il declino non come una minaccia lontana, ma come un presente già scritto. E quando Zuppi e Papa Francesco avvisano che la crisi della democrazia è reale, concreta, quasi tangibile, un affare di fiducia spezzata e di partecipazione negata, lo fanno non con lo sguardo millenario di Santa Romana Chiesa, né come ipotesi di un divenire lontano, ma con l’urgenza del presente.

Insomma, nel vuoto lasciato dalla politica, altri – tecnocrati, cardinali, togati – provano a colmare il silenzio, ad offrire quel che resta di una visione del mondo. Ed è la malinconica fotografia di un’Europa che sbiadisce, di un sistema che implode su sé stesso. È l’appello disperato a un’Europa che non sbiadisca, a un Paese che non perda se stesso. Perché la società promessa non ci è dovuta, ha ragione Draghi. Va difesa, va costruita.

Ma per farlo serve qualcuno che indichi la via. E questo, purtroppo, non lo farà un tecnocrate, un cardinale o un magistrato. Lo deve fare la politica, se ne è ancora capace.