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Il presidente della Francia Emmanuel Macron
In Francia ed in Israele, da settimane, c’è una straordinaria mobilitazione di popolo, e diciamo popolo perché centinaia di migliaia di persone, quando non milioni come in Francia, protestano senza alcun coordinamento di tipo politico, pur appoggiate da varie organizzazioni sindacali, come è successo ieri in modo del tutto inedito per Gerusalemme, arrivando a bloccare l’aeroporto Ben Gurion.
I francesi protestano per la riforma dell’età pensionabile innalzata da 62 a 64 anni per imposizione del presidente Emmanuel Macron in nome di una sostenibilità del sistema previdenziale e dei conti pubblici sulla cui necessità gli economisti sono tuttora divisi, essendo l’età media della pensionabilità assai più elevata nel resto d’Europa. Gli israeliani da 12 settimane, e ieri assediando anche l’abitazione del premier e la Knesset, scandiscono “vergogna!” e “democrazia!” brandendo il vessillo della stella di Davide a difesa dello stato di diritto: il premier Benjamin Netanyhau che da 15 anni è il locale joker politico, inseguito da svariati procedimenti giudiziari per corruzione, intende mettere la Corte Suprema sotto controllo politico (il che avrebbe anche come conseguenza che nessun procuratore possa sospenderlo dal suo ruolo di capo del governo). Israele non ha una vera Costituzione, è uno stato di Common Law, ma la Corte Suprema giudica la costituzionalità delle leggi: dal 1953 quei giudici sono nominati da un comitato misto, con la riforma Netanyhau vi sarebbe una prevalenza di politici. E quanto al giudizio sulle leggi, un codicillo della riforma che proprio ieri era all’esame in commissione alla Knesset (che per questo è stata assediata dai manifestanti) prevede che davanti a una dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte Suprema il Parlamento possa comunque approvare la legge, e dunque il governo attuarla.
Una fuoriuscita dallo stato di diritto, in quella che è l’unica vera e compiuta democrazia dell’intero Medio Oriente, che ha suscitato ovviamente la dichiarata “preoccupazione” americana (gli Stati Uniti sostengono Tel Aviv con annuali sostegni, l’ultimo varato solo qualche giorno fa è di 3,8 miliardi di dollari), e che ha sorprendentemente messo a braccia conserte esercito e riservisti: perché se la credibilità internazionale del sistema israeliano, e in particolare quello giudiziario, venisse minata attraverso la riforma Netanyhau i militari temono di poter essere perseguiti da organismi come il Tribunale Penale Internazionale ( cui Israele non aderisce) per le operazioni nei Territori palestinesi.
A Parigi come a Gerusalemme il problema è ovviamente politico. Ma la Francia, un Paese di “homme révolté” per dirla con Camus, ovvero un Paese che farebbe una rivoluzione ogni sabato pomeriggio - come celiava un noto costituzionalista italiano- e che durante il primo mandato di Macron aveva già visto le proteste dei gilet jaunes, esplode di fronte a una misura imposta: il presidente de la République ha però agito in piena legalità, attuando il terzo comma dell’articolo 49 della Costituzione che gli permette di imporre una legge al Parlamento, cosa accaduta almeno un centinaio di volte negli ultimi decenni. Le conseguenze, anche di fronte a oceaniche manifestazioni, possono riguardare la tenuta del governo: ma il presidente francese - che a termine dì Costituzione è il primo responsabile dell’esecutivo- può cambiare il primo ministro in qualunque momento. Ed è impensabile che Macron, pur avendo dimostrato quantomeno mancanza di realismo politico e di empatia con i suoi cittadini, si dimetta. Come invece fece De Gaulle per il quale l’onda, potente quanto quella di oggi, dei sessantottini sugli Champs Elisée fu il vero viale del tramonto. Oltretutto, Macron è al secondo mandato, e la Carta che ha dato vita alla V Repubblica impedisce una terza candidatura.
Nella democrazia parlamentare israeliana invece il governo è fortemente a rischio, e non solo per il vero e proprio licenziamento da parte del premier del ministro della Difesa Yoav Gallant, che aveva manifestato la sua contrarietà alla riforma della giustizia attraverso la timida richiesta di una sospe nsione “di riflessione” in vista delle festività ebraiche. Netanyhau è stretto tra la gran parte del suo stesso partito, il Likud, che esattamente come il presidente della Repubblica Herzog gli chiede di ritirare il provvedimento, e l’ultradestra e gli ultraortodossi di governo, come il ministro degli interni e quello delle finanze, che minacciano le dimissioni se invece non andrà avanti. Il gabinetto di Netanyhau ha, come spesso accaduto nella storia politica israeliana, una maggioranza esile: 64 deputati su un totale di 120.
Si vedrà nelle prossime ore quale potrebbe essere l’esito finale, ma le vicende degli ultimi 3 lustri hanno mostrato che Netanyhau riesce a rendere forza la propria debolezza politica, tanto che ieri faceva filtrare di essere favorevole a un “congelamento”.
Entrambe le vicende, a Parigi come a Gerusalemme, mostrano l’inadeguatezza di due ben differenti leadership politiche, accomunate da una vera e propria incomunicabilità con i rispettivi governati, in un’era segnata da guerre, pandemie, e malesseri sociali acuti in vasti strati sociali infragiliti da ormai oltre un decennio di ripetute crisi economiche. Ma non solo: se il sistema istituzionale israeliano è predestinato alla frammentazione e all’instabilità, le rivolte francesi di questi tempi evidenziano che la stabilità di un Paese è un puro simulacro se poi chi riveste il ruolo apicale non è attrezzato a coltivare il consenso esercitando la funzione di governo. Che la stabilità vale a poco senza rappresentatività, come accade nella legge elettorale a doppio turno secco che accompagna il semipresidenzialismo francese. E questa è una lezione che l’Italia dovrebbe tenere a mente. Non sono le regole o i vari sistemi istituzionali il punto centrale, ma le qualità e le capacità delle leadership, e più in generale della intera classe dirigente, che si mettono in campo.