PHOTO
PALAZZO DELLA CONSULTA CORTE COSTITUZIONALE
Dopodomani mattina, 19 giugno 2024, la Corte costituzionale risponderà a una domanda semplice e complicatissima: il requisito del trattamento di sostegno vitale è ingiusto? Perché? Come siamo arrivati qui? E cos’è un sostegno vitale? Sono più domande, lo so, ma la prima è la domanda.
Questa storia comincia nel 2019 con la sentenza 242 della Corte costituzionale. In realtà comincia molti anni prima, con la Costituzione e soprattutto con quell’articolo che dice che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Sapete cosa succedeva prima? E perché è tanto importante quell’articolo? Prima, del nostro parere sulla nostra vita non importava a nessuno e quell’articolo 32 è una lungimirante premessa di alcune delle nostre libertà fondamentali: se curarci o non curarci, se fare un’analisi o rifiutarla, se vivere o morire. Da lì potremmo concludere che la nostra vita è un bene disponibile e che della vita fa parte anche la morte, cioè la possibilità di scegliere se e come morire in certe condizioni (soggettive e oggettive, poi ci torno). L’interpretazione corretta è quella più restrittiva o quella più liberale? Cioè quella possibilità di rifiutare qualsiasi trattamento potrebbe contenere anche il diritto di morire (in senso forte)?
Ognuno deciderà per sé, ma la cesura con le leggi precedenti è innegabile. Perfino la contraddizione, perché quelle leggi erano precostituzionali e, in alcuni casi, incostituzionali. Tra quelle leggi c’è l’articolo 580 del codice penale, nato negli anni Trenta e arrivato integro fino al 2019. Quell’articolo riguarda l’istigazione o l’aiuto al suicidio e stabilisce che “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”.
Dal 1948 al 2019 l’aiuto è stato trattato come l’istigazione. Poi la sentenza 242 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quell’articolo “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi [...] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Questa sentenza, cioè, ha stabilito le condizioni in cui il suicidio assistito non è più un reato e che devono essere verificate dal servizio sanitario nazionale. Però in quelle condizioni ce n’è una ambigua e che potrebbe essere ingiusta se interpretata in senso restrittivo (in senso cioè meccanico, come il respiratore che aveva Fabiano Antoniani, al cui suicidio in Svizzera la 242 risponde; oggi Antoniani potrebbe morire a casa sua).
La storia di Massimiliano
L’8 dicembre 2022 Massimiliano si uccide in Svizzera. Massimiliano ha deciso per conto suo, ha una malattia irreversibile che per lui è diventata insopportabile, è capace di intendere e di volere ma non è “tenut[o] in vita da trattamenti di sostegno vitale”. O meglio non ancora. Certo, ha bisogno di tutto per le cose più stupide, per quelle che molti di noi fanno senza manco pensarci: bere, spostarsi, grattarsi, pulirsi, mangiare. Ha bisogno di tutto perché non si muove quasi più. Solo un po’ un braccio, ma che ci fai con un braccio?
Cioè, Massimiliano ha 3 requisiti su 4. Massimiliano ha deciso di morire e io e Felicetta Maltese lo abbiamo accompagnato in Svizzera. Marco Cappato, come rappresentante legale dell’Associazione Soccorso civile, ha organizzato e agevolato il viaggio. Ci siamo tutti denunciati la mattina del 9 dicembre 2022. E quindi noi indagati siamo o non siamo rei? Siamo o non siamo punibili per aver aiutato un uomo a morire? Ha senso usare, per rispondere, la presenza o l’assenza di un attrezzo meccanico?
Dopo la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, la giudice per le indagini preliminare ha trasmesso gli atti alla Corte e tra due giorni la Corte discuterà l’eventuale incostituzionalità del requisito del trattamento di sostegno vitale. Tra le memorie presentate c’è ovviamente quella dell’Avvocatura dello Stato in rappresentanza del Presidente del consiglio dei ministri – che posso leggere in virtù della mia condizione di indagata.
Io non faccio l’avvocata ma i tentativi di dimostrare che la questione è inammissibile o infondata mi paiono fiacchi e sfocati. L’Avvocatura sostiene che “non si può negare che la situazione della persona affetta da una patologia che impone ‘trattamenti di sostegno vitale’ non è sovrapponibile alla pur drammatica situazione di chi è affetto da una patologia che, per quanto irreversibile e foriera di gravi sofferenze, di tali trattamenti non necessiti”. (Ci prova anche il Movimento per la vita: “Il sostegno qualifica in peius la patologia e a denotare la vicinanza di chi ne è afflitto alla morte”).
Non si può, vero, perché si dovrebbe proprio negare. Un sostegno vitale non dimostra niente, né la prossimità alla morte, né la gravità della condizione. Lo stesso Antoniani non era prossimo alla morte, e non lo era più di un malato oncologico con metastasi epatiche. Mi fa orrore solo fare queste gerarchie di sofferenze e di attrezzi meccanici. Le questioni importanti sono sempre le stesse e non comprendono la presenza o meno di trattamenti o macchinari: che decida liberamente, che io abbia una condizione irreversibile e per me intollerabile, che sia in grado di decidere.
Poi c’è il grande classico: “il diritto alla autodeterminazione non può assumere un peso tale da essere anteposto alla tutela della vita, che – nella gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento costituzionale e sovranazionale – occupa una posizione senz’altro poziore”. C’è un conflitto tra vita e scelta e non c’è alcuna possibilità di mediare. Se poi decidiamo che la tutela della vita sia più importante dell’autodeterminazione allora dobbiamo prenderci tutte le conseguenze: non potrei rifiutare i trattamenti che mi salvano la vita, dalla trasfusione di sangue del testimone di Geova, adulto e in grado di capire le conseguenze della sua decisione, alla signora diabetica che non vuole tagliarsi la gamba, dalla chemioterapia a tutto quello che può allungare la mia vita. Insomma il diritto alla vita diventa un dovere, non importa quale sia la mia volontà.
Il bilanciamento tra vita e scelta non può essere “facciamo metà per uno” perché non sarebbe un equilibrio ma una palude, una corsa sul posto sfiancante e ingiusta. Se non diamo la priorità alla scelta dovremmo dismettere l’articolo 32, il consenso informato, la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento e la nostra libertà di decidere e di cambiare idea.
Che si può provare a fare, tornando allegramente al Codice Rocco. (Ripenserei anche ad altre libertà perché forse abbiamo un po’ esagerato.)
Criteri oggettivi, legislatore pigro
Un altro tentativo abbastanza comune è la pretesa di un criterio oggettivo – la presenza o l’assenza di un respiratore è in effetti una condizione oggettiva e facile da valutare. Ma le questioni più importanti sono proprio quelle soggettive. Questo è il cuore della nostra libertà, perché decido io e decido per me. Se il mio dolore è tollerabile oppure no, se la mia vita non mi piace più, se per me non ha più senso curarmi o sopravvivere.
Soggettivo non vuol dire necessariamente arbitrario. E la verifica dei requisiti che la Corte affida al servizio sanitario ha proprio l’intento di controllarne – per quanto possibile – la sussistenza. Ancora una volta, che io sia attaccata a una qualche tecnologia oppure no non dovrebbe avere la forza di togliere o di aggiungere un diritto. Perché questa sarebbe una forza ingiusta e necessariamente arbitraria.
C’è poi una questione ancora più generale: il governo sta difendendo questo requisito usando la scusa che lo ha detto la sentenza 242 (che, ricordiamo, risponde a un caso specifico e Antoniani aveva un respiratore) e forzando l’interpretazione più angusta. Ed è lodevole difendere una sentenza della Corte costituzionale, ci mancherebbe.
Però non si dovrebbe barare così platealmente: perché quella sentenza dice pure che il legislatore dovrebbe fare le leggi e qui, dopo anni da quella gentile richiesta, di leggi non ce ne sono. Sono passati 76 anni dall’articolo 32 e 5 dalla 242. Alcuni disegni di legge sono perfino incostituzionali (dico tecnicamente proprio, perché vanno contro la 242) e altri l’hanno copiata (male) e non hanno fatto nemmeno lo sforzo di aggiungere quello che un legislatore dovrebbe aggiungere, come per esempio i tempi entro cui il servizio sanitario deve rispondermi se chiedo la verifica dei requisiti. Perché se non c’è un limite temporale il mio diritto rischia di diventare un favore mai concesso.
Insomma, alla Corte è stato lasciato il peso della inettitudine politica e la responsabilità di rispondere al dolore delle persone. Però che ora l’Avvocatura giochi con l’argomento di autorità (“lo ha detto la Corte!”) solo per le parti che considera comode mi pare davvero troppo. È giusto oppure no allacciare un diritto a una condizione così evanescente, che non può dimostrare nulla (né la gravità di una condizione, né la vicinanza alla morte, lo ripeto) e che rischia di aggiungere un evitabile dolore a chi ne ha già abbastanza? Il requisito del trattamento di sostegno vitale è ingiusto? O come si legge nella memoria dell’Unione camere penali italiane, “perché mai la condotta di agevolazione al suicidio dovrebbe essere dotata di rilievo penale quando la persona non è tenuta in vita da un trattamento di sostegno vitale? Come può essere il suo disvalore ancorato a tale tipo di presidio medico, e non esclusivamente alla libertà, consapevolezza e autonomia della richiesta, alla gravità delle sofferenze e alla assenza di prospettive di guarigione?” (i corsivi sono miei).
La domanda è semplice perché è davvero difficile sostenere che sia giusto. Nonostante i tentativi dell’Avvocatura e delle altre associazioni preoccupate delle conseguenze di questa eventuale cancellazione, nessuno è stato in grado di dimostrare il rischio di considerarlo un requisito solo eventuale e non necessario.
La domanda è complicatissima perché riguarda la morte, anche la nostra. Che è un pensiero che nessuno vuole fare, si capisce. Però, ormai da vecchia, ho capito che la strategia dell’opossum in letargo non ha il potere di cambiare la realtà. E che all’irrimediabile non dovremmo aggiungere la costrizione, l’ingiustizia, la prova di forza. Non per legge, non per necessità.
Io non so cosa farei in una condizione come quella di Massimiliano. O di Federico, Fabio, Elena, Sibilla, Romano, Anna, Paola, Margherita. Ma so una cosa: che voglio decidere io. E che nessuno dovrebbe farlo al mio posto. A meno che, ovviamente, non sia io a chiederlo. Io non so cosa farà la Corte. Ma mi pare veramente difficile sostenere che questa condizione necessaria sia ragionevole e giusta e non un peso evitabile.