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Sono passati poco più di due mesi da quando sono entrata in una caserma dei Carabinieri e mi sono denunciata. Perché? Non lo so. E lo so benissimo.
La parte più facile della risposta è quella tecnica: perché dalla sentenza della Corte costituzionale 242 del 2019 è possibile aiutare qualcuno che ha deciso di morire, senza che si configuri come un reato, in determinate condizioni. E queste condizioni sono che la persona che si aiuta abbia deciso per conto suo, in modo libero e autonomo (giusto), che sia «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (giusto), che abbia una patologia irreversibile (giusto), che questa patologia sia «fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili» (giusto, soprattutto la disgiuntiva e che sia una valutazione soggettiva, io sulla mia vita e non sulla vostra – e viceversa), «sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente» (giusto anche se si dovrebbe specificare i tempi e le condizioni perché altrimenti si rischia di rimandare e rimandare, ma questa è una sentenza della Corte su un caso particolare già successo e non una legge), e che quella persona sia «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale» (sbagliato).
Questo requisito è sbagliato e ingiusto, è arbitrario ed esclude moltissime persone – ma sarebbe ingiusto e sbagliato anche se ne escludesse una soltanto. Quindi quando Massimiliano ha deciso che voleva morire aveva tutte queste condizioni meno l’ultima.
Massimiliano aveva la sclerosi multipla e non aveva nulla che potesse essere considerato un sostegno vitale (anche se la sentenza del tribunale di Massa sulla morte di Davide Trentini suggerisce che per sostegno vitale può intendersi anche un trattamento farmacologico e l’assistenza sanitaria e non solo un sostengo di tipo meccanico, ma non ha portata generale e determina solo giurisprudenza).
Mancando un requisito, non poteva scegliere di morire a casa sua. Allora Massimiliano si è messo a cercare una soluzione, ha scritto a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica – è grazie al fatto che ha accompagnato Fabiano Antoniani che siamo arrivati alla sentenza 242 – e ha deciso di andare in Svizzera, dove quel requisito nessuno te lo chiede (da nessuna parte al mondo te lo chiedono perché non ha senso nemmeno clinicamente).
Poi c’è la parte morale della risposta che ha a che fare con quello che ha detto Massimiliano: «Mi sento intrappolato in un corpo che non funziona più, una macchina rotta. Se non avessi paura del dolore, anche di una semplice puntura, avrei già provato a togliermi la vita più di un anno fa».
In quei giorni e in quelle settimane avevo riascoltato tante volte quello che aveva detto Piergiorgio Welby nel 2006, avevo riletto quello che aveva scritto e avevo parlato tante volte con Mina – riascoltandola per scegliere e montare
Sei stato felice?, la serie audio su Mina e Piero Welby. Negli anni passati ho visto morire molto male alcune persone, una in particolare. Che per quasi un mese non avrebbe proprio voluto continuare a vivere, non perché voleva morire ma perché la malattia era ovunque e il dolore era incontenibile e il respiro faticoso, acquoso, soffocante.
Ascoltando Massimiliano e il padre Bruno (tutto quello che hanno detto lo potete ascoltare sul sito dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica), ripensando a Welby e a i miei morti, ho deciso di accompagnarlo, cioè di fare quella piccola e unica cosa che potevo fare. E accompagnarlo significava disobbedire, come aveva fatto Cappato, e poi anche Mina Welby e altri.
Che significa disobbedire? A pensarci è quella obiezione di coscienza originaria, quella contra legem, quella di Antigone. (Non mi sto paragonando ad Antigone, non sono così mitomane).
Ma è proprio un atto che un cittadino decide di fare e che è contrario a una legge, quindi sai che stai facendo qualcosa di illegale e quel qualcosa ti pare però giusto, moralmente ineccepibile, quasi doveroso. È un atto che intende denunciare un divieto ingiusto e che vuole proteggere un diritto che è negato oppure amputato.
Nel caso di Massimiliano: aveva deciso di non voler vivere più, aveva deciso di morire, avrebbe voluto farlo a casa sua, la via meno oscena era andare in Svizzera. Cosa fare della propria salute e della propria vita dovrebbe essere un dominio di libertà – con alcune condizioni che riguardano ovviamente la possibilità stessa dell’esercizio di quella libertà. Accompagnarlo in Svizzera è stata una disobbedienza civile, aiutarlo a sottrarsi a un divieto ingiusto e immorale.
Ci avevo sempre ragionato o scritto, non avevo mai fatto niente di simile, un po’ perché sono fifona un po’ perché non mi era mai capitato (principalmente perché sono fifona).
E non è che oggi io non abbia l’ansia anche solo di presentarmi in aula se sarò rinviata a giudizio, è che quell’ansia a un certo punto diventa più pesante dell’accidia. Quell’ansia diventa più tollerabile di sapere che oggi se sei attaccato a un respiratore puoi legittimamente morire a casa tua, e se invece (ancora) non hai un trattamento di “sostegno vitale” non lo puoi fare. Devi andare in Svizzera, appunto.
Una decisione, privata e personale, che diventa uno strumento politico, quindi pubblico. Che succederà ora? Non lo so.
Intanto l’8 febbraio è stata Paola ad andare in Svizzera e ad accompagnarla sono state Virginia Fiume e Felicetta Maltese (che aveva accompagnato con me Massimiliano), per poi denunciarsi insieme a Cappato, come responsabile dell’associazione Soccorso Civile. Che succederà ora? Non lo so. Ma non fare niente davanti a una ingiustizia era diventato impossibile.