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Nicola Gratteri, con il tono grave di chi si appresta a rivelare una indicibile verità, ha dichiarato – udite udite – che la magistratura italiana non ha a disposizione il “fuoco mediatico” necessario a contrastare la riforma della separazione delle carriere. E lo ha detto nel Paese del caso Tortora, di Tangentopoli, della gogna pubblica e del processo mediatico elevato a forma d’arte.
Ora, c’è una forma di audacia dialettica che rasenta l’eroismo, e c’è un’altra forma di audacia che sconfina nella comicità. Ognuno decida in quale dei due casi ci troviamo. Certo è che se c’è una categoria che ha sempre trovato spazio, megafoni, titoli cubitali, microfoni aperti e giornalisti adoranti, quella è proprio la magistratura.
E invece niente, il dottor Gratteri dice di sentirsi solo. O meglio, oppresso, privato di quella visibilità necessaria a fermare la riforma della separazione delle carriere, il tabù inviolabile della magistratura engagée. E lo dice, con la compostezza di un predestinato al martirio, nel programma di punta di La7, tra una carezza del conduttore e qualche sguardo affranto dei presenti.
E se avesse ragione? Se davvero i magistrati fossero ridotti al silenzio e condannati a vivere nel cono d’ombra dell’irrilevanza mediatica? E allora forse è bene che si dotino di un proprio giornale: potrebbero chiamarlo Il Fatto Quotidiano…