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Filippo Turetta
«Perché i giudici spesso sembrano stare dalla parte dell’assassino?». La domanda è apparsa in uno dei tanti commenti alla notizia del giorno, quella relativa ai motivi dell’esclusione dell’aggravante della crudeltà per Filippo Turetta, il giovane che ha ucciso con 75 coltellate l’ex fidanzata Giulia Cecchettin. Una domanda che appare strana se si pensa alla decisione dei giudici della Corte d’Assise - composta, lo ricordiamo, anche da sei giudici popolari -, che hanno sentenziato l’ergastolo per Turetta. Vuol dire carcere a vita, la pena massima.
Se le si guarda con occhi comuni, se si pensa al senso stesso della frase “75 coltellate”, se si prova a contare con le dita questo numero, la crudeltà appare evidente. È evidente che sia crudele la morte - anzi, l’assassinio brutale - di Giulia Cecchettin, che lo sia il modo, anche solo il pensiero - coltivato per giorni, scrivono i giudici - di fare ciò che Turetta ha fatto. Nessuno di noi penserebbe, mai, che il gesto di Turetta non sia stato crudele. Terribile. Ributtante. Ma una cosa è il sentimento personale, la sensibilità di ognuno di sentire - per fortuna - questo gesto come distante, irripetibile, inimmaginabile. Una cosa è il diritto. E l’aggravante della crudeltà, dicono coloro che ogni giorno frequentano le aule dei Tribunali, è quella più difficile da riconoscere. Proprio in questo scarto tra attesa collettiva e lettera del diritto si rivela il nodo filosofico più profondo: il diritto non può piegarsi agli umori, alle emozioni, alla sete di vendetta. Non può rispondere ad una aspettativa, fondata solo sul sentire comune. Non perché non sia importante riconoscere il dolore, ma perché la giustizia – per essere tale – deve rimanere giustizia, non spettacolo o sfogo.
Una sentenza non è un’opinione. Non è neanche un atto di empatia, per quanto il dolore delle vittime – e delle loro famiglie – sia riconosciuto e rispettato. È proprio per quel dolore, che deriva dal tradimento delle regole comuni - in questo caso un tradimento spiegato - che il processo è pensato. Ma il processo non ha un solo protagonista ed è, innanzitutto, un esercizio di responsabilità razionale e di garanzie, che deve muoversi entro regole ferree, prima fra tutte: non condannare su base emotiva o intuitiva, ma solo quando vi sia la certezza oltre ogni ragionevole dubbio. Nel caso di Giulia Cecchettin, i giudici non negano la ferocia dell’omicidio, ma distinguono – sulla base delle prove – tra efferatezza e crudeltà deliberata. Non per sollevare l’imputato da responsabilità ( infatti la condanna è al massimo della pena), ma per rispettare l’architettura della giustizia come spazio del “giudicare”, non del “reagire”.
Ci si può interrogare a lungo - e giustamente - sulla struttura stessa del diritto, che spesso riflette codici maschili. Ma ciò che chiunque, commentando la notizia, non ha notato è che la stessa sentenza non chiude gli occhi sulla matrice culturale del gesto. Anzi, riconosce esplicitamente che l’omicidio affonda le sue radici in un modello di sopraffazione arcaico e patriarcale, incapace di tollerare l’autonomia femminile. Quella di Turetta non è solo la violenza di un individuo, ma l’espressione di una visione tossica dei rapporti, in cui la libertà della donna viene vissuta come una minaccia. Anche in questo, la giustizia serve non solo a punire, ma a nominare: a riconoscere ciò che nella società produce morte.
La giustizia, però, per essere tale deve misurare, non solo punire. Chiedersi perché non sia stata riconosciuta la crudeltà è frutto di un’esigenza legittima di dare un nome all’orrore. Ma la filosofia del diritto ci insegna che il processo penale non è lo spazio in cui sfogare la rabbia collettiva: è un luogo in cui la società si impegna, pubblicamente e formalmente, a non rispondere alla violenza con altra violenza. Non con linciaggi morali o con pene simboliche. Con regole, con prove, con la fatica della distinzione.
Ma il processo si gioca spesso su due tavoli paralleli: quello del tribunale e quello dell’opinione pubblica. Ed è per questo che parte dello sforzo della misura, data la presenza della stampa nei processi, spetta anche a chi informa. Perché se la verità mediatica è spesso emotiva, veloce, istintiva, la verità processuale è lenta, argomentativa, faticosa. E proprio per questo, civile. Esclude ciò che non si può provare. Non perché lo neghi, ma perché la condanna non può mai poggiare sulle aspettative della folla. E la stampa dovrebbe rendere le decisioni comprensibili, non stravolgerne il senso, amputandolo.
La scelta dei giudici di escludere l’aggravante della crudeltà non assolve Turetta: lo condanna, senza attenuanti. E ci ricorda che giustizia e vendetta non coincidono e non devono farlo. Il diritto non può lenire la ferita. Non è rancore, quello che, dice ancora la sentenza, ha covato Turetta nei confronti della sua vittima. La sentenza può riconoscere la gravità del gesto, può punire il colpevole, ma non può restituire la vita, né rendere giustizia al dolore fino in fondo. Forse bisognerebbe anche sforzarsi, nelle sentenze, di trovare parole capaci di parlare davvero al dolore collettivo — ma senza cedere alla retorica o tradire il rigore del diritto. È questa distanza a far esplodere l’insoddisfazione pubblica: il bisogno di senso che un’aula di Tribunale non può, da sola, colmare. Ma è proprio accettando questo limite – e rispettandolo – che una società resta giusta. Perché se il diritto si piega all’onda emotiva, non fa più giustizia: fa vendetta.