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Che Gino Cecchettin, il padre della povera Giulia, il cui discorso in memoria della figlia aveva non solo commosso, ma indotto tutto il paese a riflettere sul tema della violenza sulle donne e della violenza in generale, abbia deciso di affidarsi a un’agenzia di comunicazione e letteraria è notizia che ci deve indurre a pensare. La società in questione è di quelle serie, che agiscono a livello internazionale, la Andrew Nurnberg, e altrettanto seria è la agente, Barbara Barbieri, che la rappresenta per l’Italia, dunque le premesse sono buone. Buono è anche ciò che trapela dalle agenzie di stampa, che cioè per il momento la agente nominata sembrerebbe doversi occupare soprattutto di tutelare la famiglia Cecchettin dal clamore mediatico suscitato ovviamente dall’omicidio della povera Giulia. Non è infatti facile sottrarsi all’assalto dei media affamati di particolari raccapriccianti e non avere un momento per coltivare il proprio dolore: ché ci vuole tempo anche per piangere, in questi casi.
Eppure questa notizia, di per se’ d’importanza secondaria, non può non colpire. Forse sull’onda di recenti polemiche sul ruolo della stampa e dei media in generale rispetto ai casi giudiziari, potrebbe far pensare che esercitare il proprio diritto ad esprimersi, anche tramite un’agenzia di comunicazione, sia un eccesso di zelo e possa preludere ad un ruolo mediatico troppo invadente. In fin dei conti, il compito di un’agenzia di comunicazione è principalmente quello di fare apparire e comparire il più possibile i propri clienti. Ci auguriamo che non sia così nel caso di Gino Cecchettin, anzi, ne siamo sicuri. Ma il problema resta.
È ovvio che qualunque presa di posizione della vittima o dei parenti della vittima ha un’influenza più o meno incisiva sull’andamento processuale. Ma l’intermediazione di un’agenzia di comunicazione rischia di portare ancora più in alto quella che può diventare una contraddizione o, addirittura, un effetto invasivo. Non in questo caso, magari, ma in generale senza dubbio. Tanto più grave è la situazione quando a ricercare visibilità (e dunque ad incidere sul processo) è la parte della vittima. I diritti della vittima sono molto ben tutelati nel nostro ordinamento, ed essa ha nel processo la stessa forza ed incisività dell’indagato poi imputato. Forse fin troppa, secondo alcuni, che parlano di una deriva vittimocentrica che caratterizza i nostri processi, erodendo i diritti dell’imputato o comunque squilibrando quanto meno la parità processuale delle parti.
Bisogna vigilare che ciò non accada, non solo impedendo che nuove leggi rafforzino la posizione processuale della vittima (magari inserendo la sua posizione nell’articolo 111 della Costituzione) ma anche stando attenti a che l’immagine della vittima non sopraffaccia l’immagine dell’imputato e conseguentemente i suoi diritti. Non è solo questione formale di omaggio al principio di non colpevolezza dell’imputato fino alla definitività del giudizio, ma è una questione molto concreta del quanto di esposizione dell’una o dell’altra parte sia tollerabile nel nostro sistema processuale. Se una delle due parti in causa compare e ricompare nei talk show, magari spinto da un’agenzia di comunicazione di pochi scrupoli, il processo si sposta dalle aule giudiziarie agli studi televisivi (o, peggio, sui social): e questo non è tollerabile.
Siamo sicuri che non è il caso del padre di Giulia, che abbiamo apprezzato per sensibilità e riservatezza, e nemmeno della sua agente internazionale, che ha tutti i titoli per gestire il diritto di espressione di lui. Ma il pericolo c’è e non possiamo ignorarlo.