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La notizia che l’ing. Gino Cecchettin, padre della povera Giulia, si sia affidato a una nota agenzia di comunicazione londinese per curare i rapporti con la stampa e per sviluppare progetti futuri, come un libro o una fiction, induce a riflettere su quello che sembra profilarsi come un cambio di paradigma del processo mediatico.
Una premessa è d’obbligo: nessuno intende formulare giudizi, meno che mai di carattere morale, sull’atteggiamento tenuto dai familiari di Giulia, segnalando, peraltro, come il padre, in particolare, abbia finora incarnato un modello di compostezza, misura e razionalità nell’affrontare lo straziante dolore della perdita della figlia.
Nel caso Cecchettin si è registrata una prima fase, legata al fatto di cronaca, caratterizzata dall’abituale atteggiamento dei media istituzionali intenti a fornire una versione dei fatti marcatamente colpevolista, condita dalla descrizione della presunta personalità deviata dell’indagato, e ciò a prescindere dallo stretto (e lodevole) riserbo tenuto tanto dagli inquirenti quanto dal difensore del giovane indiziato.
Il caso di cronaca ha però subito lasciato il posto alla rielaborazione in chiave politica, culturale e sociologica, sempre attraverso l’intervento pervasivo dei media, ma anche nel nuovo contesto della incontrollabile giustizia social-mediatica, dove ognuno può affacciarsi alla tribuna del web per pronunciare il suo discorso, in uno Speakers' Corner virtuale, illimitato e sostanzialmente senza regole.
Dall’informazione sull’indagine in corso si è passati al dibattito pubblico sul patriarcato, sui femminicidi (neologismo ormai accolto nei dizionari), sul modello culturale delle società occidentali e sui diritti delle donne. In questa prospettiva potrebbe essere letta anche la scelta dell’ing. Cecchettin, un modo più “evoluto” di intervenire in prima persona nella battaglia politica per prevenire gli omicidi e la violenza nei confronti delle donne.
Sarebbe lo scenario più rassicurante, ben lontano dalla pura e semplice spettacolarizzazione di gravi reati alla quale siamo tristemente abituati attraverso il processo parallelo che si celebra nei vari talk show.
Sullo sfondo rimangono però almeno due questioni problematiche.
La prima è la garanzia del giusto processo in un caso che ha registrato una tale sovraesposizione mediatica, al punto da diventare una questione di carattere politico trattata, sia pure con notevole garbo istituzionale, persino dal Presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno.
Il tribunale del popolo ha già da tempo condannato Filippo Turetta, segnando non solo la strada per l’indubitabile affermazione di responsabilità, ma soprattutto per l’aspettativa di una pena esemplare. Come potrà il giudice, chiamato a decidere in nome del popolo italiano, emettere una sentenza di condanna che possa tener conto di eventuali circostanze attenuanti? Sarà in grado di vincere la straordinaria pressione di un caso giudiziario che non solo ha scosso profondamente la coscienza del Paese, ma è addirittura divenuto il paradigma di una lotta politica e di una invocata rivoluzione culturale?
La seconda questione riguarda la legislazione emotiva che immancabilmente segue i fatti di cronaca, ma questa volta non si limita all’ennesimo restyling del “codice rosso”, volendo addirittura incidere sulla Costituzione, inserendo il seguente comma nell’art. 111: «La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate dal reato».
Nelle intenzioni di chi ha proposto tale modifica, si vorrebbe marcare un ribaltamento della logica stessa del giusto processo, dando prioritaria attenzione e tutela alle vittime del reato rispetto all’imputato. Una proposta pericolosamente intuitiva, secondo cui la vittima va tutelata rispetto al carnefice, ma di impatto potenzialmente dirompente rispetto alla logica controintuitiva del processo penale in cui, fino al giudicato di condanna, l’imputato è presunto innocente e la vittima, di conseguenza, è presunta non tale.
Al netto di evidenti rigurgiti di populismo penale, la proposta di riforma della Costituzione è ispirata da un gravissimo errore di elementare sintassi processuale e, proprio per l’analfabetismo che la contraddistingue, rischierebbe, se approvata, di far implodere il sistema processuale penale. A meno di non voler accedere a una interpretazione sistematica costituzionalmente ortodossa che, alla luce della presunzione d’innocenza che accompagna l’imputato nel corso dell’intero processo, riservi la tutela accordata alle vittime e ai danneggiati ai soli soggetti che abbiano acquisito tali status per effetto della condanna irrevocabile dell’accusato. Questa sarebbe l’interpretazione più aderente all’idea stessa di un giusto processo in cui il soggetto che si assume abbia subito il reato non può godere, in quanto tale, di una tutela anticipata che presuppone logicamente il pieno accertamento di responsabilità a carico dell’imputato. Nel processo la tutela deve essere accordata ai diritti fondamentali di chi può aver subito il reato ad opera di chi potrebbe averlo commesso, senza attribuzioni anticipate di status. Una tutela accordata, quindi, alla persona, prima ancora che ne sia accertata la qualità di vittima. Ma trattandosi, come detto, di una logica controintuitiva, è facile pronosticare che la paventata riforma costituzionale potrebbe avere ben altro impatto sul già precario equilibrio dei valori del giusto processo. E allora la quesitone politica non sarà più solo la tutela delle donne, ma quella della tutela di ogni individuo di fronte al pregiudizio di una pretesa punitiva dello Stato orientata a favore della vittima.
*Ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi Milano-Bicocca