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OLIVIERO MAZZA DOCENTE UNIVERSITA' DI MILANO
L’attuale fase di scontro fra politica e magistratura ha un’origine ben precisa, che si cerca di occultare dietro a questioni apparentemente eccentriche, come quelle legate alla gestione dell’immigrazione, ed è rappresentata dal disegno di legge governativo sulla separazione delle carriere.
Come diceva Giuliano Vassalli nel 1987, alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, «la magistratura ha un potere enorme… lo ha sul potere legislativo… è il più grande gruppo di pressione, è il più forte gruppo di pressione che abbiamo conosciuto, almeno nelle questioni di giustizia… in quaranta anni non c’è stata una legge in materia di giustizia che non sia stata ispirata e voluta dalla magistratura, la quale è diventata sempre più un corpo veramente corporativo». In particolare, la legge di ordinamento giudiziario, la legge dei magistrati, appariva a Vassalli “intoccabile” proprio per l’opposizione dei suoi destinatari naturali. Un corto circuito costituzionale, in cui i “giudici soggetti soltanto alla legge” impongono le loro scelte al legislatore, soprattutto quando in gioco c’è lo stato giuridico della magistratura.
L’Italia, concludeva amaramente Vassalli, è un Paese a «sovranità limitata dalla magistratura, nelle questioni di giustizia».
Non ci vuole molto per comprendere quale deflagrante conflitto possa aver innescato la scelta del governo Meloni di calendarizzare nei lavori parlamentari la riforma delle riforme, quella più temuta dalla magistratura e più convintamente sostenuta dall’avvocatura.
In questo scenario da Armageddon si sono via via collocate anche tutte le altre riforme di questa legislatura, che vanno dal disegno di legge sicurezza, sul versante sostanziale, fino alla destrutturazione della Cartabia e a un nuovo garantismo, su quello processuale.
È fin troppo scontato che chiunque prenda posizione su uno qualunque dei temi in discussione, come ha fatto l’Unione delle Camere Penali con la recente astensione dalle udienze contro il pacchetto sicurezza, finisca per essere strumentalizzato.
In un imprevedibile gioco delle parti, nel denunciare la matrice illiberale dei nuovi reati l’avvocatura penale si è trovata schierata a fianco non solo dei partiti della sinistra, che hanno riscoperto un garantismo di facciata in chiave di opposizione al governo, ma addirittura alla magistratura che persegue proprio quell’obiettivo finale di fare naufragare la separazione delle carriere attraverso battaglie intermedie, come quella sui migranti.
Nel corso della manifestazione romana il segretario Romanelli e il presidente Petrelli hanno ricordato che l’Ucpi non è un soggetto politico partitico, non tesse alleanze, nemmeno occasionali, essendo da sempre schierata solo sulla linea del garantismo costituzionale. Un soggetto che fa politica del diritto, nel senso dei valori che lo contraddistinguono e che sono scolpiti nel Manifesto, ma che rimane equidistante dalla politica in senso stretto.
E allora, con l’onesta intellettuale che da sempre contraddistingue almeno la maggior parte dei penalisti, bisogna riconoscere che l’azione del governo va valutata nel suo complesso e presenta caratteri chiaroscurali.
Se sul piano sostanziale il pacchetto sicurezza è l’ennesima scelta irrazionale e autoritaria delle politiche securitarie che si susseguono, senza soluzione di continuità, dalla fine del terrorismo interno, su quello processuale, e ancor di più su quello ordinamentale, le riforme proposte o già attuate vanno in direzione opposta.
Basti ricordare, oltre al progetto di separazione delle carriere, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, la riforma delle intercettazioni che tutela la segretezza delle comunicazioni fra imputato e difensore, il divieto di pubblicazione dell’ordinanza custodiale, le nuove garanzie in tema di libertà personale, dal contraddittorio anticipato alla collegialità, la limitazione del potere d’appello del pubblico ministero, la cancellazione degli odiosi oneri formali introdotti dalla Cartabia in materia di impugnazioni, rimasti solo per il difensore d’ufficio, quando però proprio i parlamentari di Fratelli d’Italia avevano proposto l’abrogazione completa.
Senza dimenticare la proroga salvifica del regime di utilizzo della pec e del deposito cartaceo degli atti a fronte delle perduranti disfunzioni del portale telematico fortemente voluto dai tecnocrati del Pnrr, la riforma in chiave sostanziale della prescrizione, per finire con la Commissione di riforma del codice di procedura penale.
Per la prima volta l’Ucpi ha una rappresentanza che va dalle due precedenti giunte fino a quella attuale, oltre ai componenti del Centro Marongiu. Certamente i lavori della Commissione Mura sono resi difficili dall’interdizione della folta componente della magistratura, ma si tratta pur sempre di un’iniziativa volta a ripristinare i principi del processo accusatorio.
È davvero curioso che chi critica apertamente l’azione del ministro Nordio si riconosce in quelle forze politiche, oggi di opposizione, che si sono convertite sulla via di Damasco al garantismo, dopo aver sostenuto l’egemonia giudiziaria e creato un processo penale neo- inquisitorio da utilizzare come strumento di difesa sociale o di efficienza repressiva.
Bisogna tornare ai tempi di Giuliano Vassalli per ritrovare un legislatore che avesse in mente un progetto di riforma processuale improntato al garantismo, magari con tecnica imperfetta, ma pur sempre in grado di segnare un deciso cambio di passo rispetto alle ultime stagioni, da Orlando passando per Bonafede fino alla Cartabia, animate dal parossistico efficientismo a tutto discapito delle garanzie individuali. La vera matrice autoritaria del sistema penale va ricercata nel tradimento del modello accusatorio originario e, ancor più, del disegno costituzionale del giusto processo.
Il processo, non va mai dimenticato, è il cuore del sistema penale, in grado di compensare o addirittura di elidere gli eccessi del penale sostanziale e di mitigare la risposta punitiva carceraria. Come diceva Cordero, è guardando alla disciplina del processo penale che si colgono i rapporti fra autorità e cittadino in un dato momento storico.