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Domenica sera, Le Iene hanno fatto ciò che il giornalismo dovrebbe sempre fare: hanno raccontato l’umanità di una persona che, per lo Stato italiano, è colpevole di quattro omicidi. L’umanità di Fausta Bonino, che a 64 anni ha varcato il cancello di un carcere, separandosi dal marito, dai figli, dal nipote nato da poco, dal gatto che da undici anni le dormiva accanto. Dagli affetti, dalla vita, da tutto.
Una sentenza definitiva, un ergastolo che non lascia appelli, una condanna destinata a durare per sempre. Un momento terribile, quello del suo ingresso in prigione, raccontato con rispetto e senza spettacolarizzazioni. Senza retorica e senza pietismo, ma con la giusta attenzione a ciò che spesso resta ai margini delle cronache giudiziarie: lo smarrimento di chi vede il mondo chiudersi dietro una porta blindata, la fragilità estrema di un istante in cui la vita cambia forma per sempre.
Ma non solo. In quel racconto, Le Iene sono riuscite a cogliere anche un dubbio impossibile da scacciare. Non una suggestione, non un’illusione difensiva, ma un’incertezza concreta, scavata nei processi, nelle sentenze contraddittorie, nei troppi interrogativi rimasti senza risposta. La vicenda di Fausta Bonino è un cortocircuito della giustizia, una storia in cui le certezze si sgretolano appena si prova a osservarle da vicino.
Condannata all’ergastolo in primo grado, poi assolta con formula piena, poi nuovamente condannata. Un percorso giudiziario frastagliato, che in apparenza ha trovato il suo epilogo, ma che lascia ancora troppe domande aperte. Nel servizio, Le Iene hanno ricostruito il peso della condanna, senza trasformarla in una battaglia ideologica, ma restituendo il dolore di chi si sente strappato via dal mondo senza comprenderne il motivo. Il momento del distacco, il tempo che si cristallizza in un prima e un dopo. Un prima che era la normalità e un dopo che è il carcere, per sempre.
E mentre i cancelli si chiudono dietro Bonino, la domanda resta: è davvero finita qui? In quelle immagini è emerso tutto il senso delle parole di Leonardo Sciascia, quando spiegava che la giustizia è terribile non solo quando è cieca, ma anche quando sceglie di vedere solo una parte della verità. E nel caso di Fausta Bonino, il meccanismo sembra essersi inceppato in una direzione unica, incapace di tornare sui propri passi.
Le Iene non hanno dato risposte. Hanno posto domande. E questo è il vero merito del servizio: lasciare aperto lo spazio del dubbio, riportando l’attenzione non solo sul processo, ma anche sulle persone, sulle vite che vengono travolte da una sentenza. Perché il carcere non è solo mura, sbarre e cancelli: è il tempo che si ferma, gli affetti che restano fuori, la quotidianità che diventa un ricordo lontano. È stata una fotografia umana di un dolore, il racconto di una separazione che non è solo fisica, ma esistenziale.
Non si tratta di gridare all’ingiustizia o di attaccare i giudici. Si tratta di non rinunciare al dubbio, di chiedersi se davvero la verità processuale sia l’unica possibile. Di fronte a una condanna che durerà per sempre, non è un dettaglio, ma una responsabilità collettiva.