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Erdogan, presidente della Turchia (Associated Press/LaPresse)
L’opportunista Erdogan, dopo avere reso omaggio, quasi fosse un eroe, ad Ismail Haniyeh, il leader di Hamas ucciso in Iran con un assassinio mirato, traendo spunto da alcuni commenti negativi su Instagram alla sua dichiarazione di vicinanza al gruppo palestinese, ma soprattutto da altrettanti post censurati perché mostravano immagini troppo crude del conflitto in Medio Oriente, ha colto la palla al balzo e da venerdì scorso ha chiuso la piattaforma Instagram. Più esatto sarebbe dire ha fatto chiudere, perché delegata a queste decisioni e operazioni è la Agenzia che sovrintende alle comunicazioni via internet in Turchia. D’altronde, essendo questa saldamente in mano al governo, possiamo anche dire che a chiudere il social network è stato il sultano.
Non stiamo qui a rimarcare come l’Agenzia possa sì chiudere anche una piattaforma ma per fondati ed espliciti motivi e per un tempo determinato e più breve possibile: ambedue i requisiti non ricorrono in questo caso.
Le parole del presidente che hanno accompagnato questa operazione sono state l’accusa di “fascismo digitale”, e di essere al servizio dei dettati dell’Occidente. Molto prosaicamente, facendo leva su un diffusissimo sentimento filopalestinese molto forte in tutto il Paese, e sullo speculare sentire ant- israeliano, anch’esso assai condiviso. Ma prevale, in tutta quanta la operazione, la volontà di mettere a tacere un mezzo di comunicazione ( appunto Instagram) impossibile da controllare direttamente – ma che pare sia utilizzato da 57 milioni di turchi – e di dare anche un segnale alle altre piattaforme.
Fra queste, sono nel mirino le piattaforme e le agenzie curde, tutte tacciate di fiancheggiare il Pkk, che la Turchia ( assieme agli Usa e alla Unione europea, ma non assieme all’Onu) considera organizzazione terrorista. Infatti l’accusa lanciata a Instagram è anche quella di fiancheggiare il terrorismo curdo.
Se si va sul sito Bianet – Agenzia di stampa sul suolo turco, ma che pubblica anche in inglese e che è quotidianamente a rischio di chiusura – si trova con facilità quale sia
la situazione aggiornata della libertà di espressione in Turchia. I giornalisti sono il gruppo sociale e professionale più colpito dalla repressione governativa ( gli avvocati sono i secondi). Li si colpisce contestando il reato di “insulto al Presidente” quando non addirittura di terrorismo. E fioccano le condanne ad anni di galera e la chiusura di testate ed agenzie. Soprattutto quelle che operano on line: la sola realtà, o quasi, che ormai sopravvive con un margine di indipendenza. Dati verificati e forniti da Human Rights Watch Turkey. È in questo quadro che si colloca la attuale chiusura di Instagam, favorita anche da una legge assai contestata che obbliga ogni piattaforma ad avere sul suolo turco una sede e un responsabile, per poter meglio chiamarla a rispondere con multe salatissime.
Ma è soprattutto la spregiudicatezza dell’intera operazione che colpisce, una volta ancora.
Erdogan taccia di “fascismo digitale” una piattaforma internazionale che potrà anche avere una politica aziendale e di immagine assai discutibile, ma è certamente, bene o male, anche uno strumento di democrazia, specie laddove la libertà di espressione è raso terra.
Altrettanto spregiudicatamente egli gioca col conflitto israelo- palestinese perseguendo il proprio unico scopo, quello di avere un ruolo internazionale, che sembra sfuggirgli proprio ora che le tensioni si estendono all’intera area mediorientale e non paiono poter essere circoscritti ai territori palestinesi a sud e a nord di Israele. In questo senso la “mossa antidigitale” di Erdogan forse è dettata dalla sua debolezza più di quanto non sembri.