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CORTE D'APPELLO TOGHE TRIBUNALE AULA
Riportiamo di seguito la trascrizione dell'intervento svolto dal presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick al seminario “L'Alta Corte disciplinare.
Pro e contro di una proposta che fa discutere” organizzato dall'Associazione Vittorio Bachelet presso il Consiglio superiore della magistratura lo scorso 12 febbraio.
Il pianeta giustizia mi sembra – nel contesto della polemica – una “rosa dei venti”. I suoi quattro punti cardinali sono rappresentati dalla riserva di legge; dal “giusto processo” con tutte le sue implicazioni e interferenze sostanziali e processuali; dal principio cardine della responsabilità personale in forza di una legge anteriore al fatto compiuto da una persona; dalla pena che non deve essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato.
Quella della Rosa dei Venti è una realtà tempestosa verso nuove prospettive auspicate da tutti, ma fra loro assai diverse. È segnata da venti impetuosi che investono l'uno e poi l'altro settore di essa senza più alcuna distinzione fra questi ultimi. È caratterizzato non solo da rapidità, con il suo corteo di suggestioni, trascinamenti, coinvolgimento, fascino; ma da una pretesa di velocità (intesa come un valore misurabile) che finisce per annullarsi nell'indifferenza e nell'inerzia.
Quella realtà è segnata da burrasche improvvisate, alternate a una bonaccia sonnacchiosa; da slanci riformisti contrapposti a paure ea inquietudini di fronte al nuovo. Cerca di svolgersi nel timore di cambiamenti del modo di vivere, nell'inquietudine e nell'angoscia, senza avvertire il cambiamento culturale e tecnologico che stiamo vivendo e la sua turbolenza. Non tiene sufficientemente conto della necessità di coniugare rapidità e lentezza; finisce per risolversi in egoismo, solitudine e rassegnazione, anziché germogliare frutti positivi.
È una realtà che rischia di non evitare il naufragio sugli scogli del soggettivismo disordinato dei protagonisti o sulle secche del sincretismo superficiale e del populismo; per evitare le inquietudini
del nostro tempo attuale finisce per risolversi in un quieto vivere soltanto apparente, destinato al fallimento. Ossessionata dalla tempesta, la navigazione rischia di sottovalutare le “novità” e le difficoltà della riva verso cui si dirige; non è in grado di sviluppare, con la memoria del passato e dei suoi errori, l'intuito per governare la direzione verso il futuro.
Al di là dell'apparenza sembrano mancare la consapevolezza dei valori in gioco; la capacità di un dialogo sincero e costruttivo su di essi; il coraggio di aprirsi reciprocamente alla fiducia e alla ricerca di un percorso comune.
Vi è quanto basta – negli spunti numerosi e in parte fondati che emergono dal dibattito culturale – per raccogliere indicazioni che consentono di aprirsi a qualche fiducia su una “giustizia semplice”, libera dai condizionamenti, dagli alibi e dagli eccessi del tecnicismo e della politica per raccogliere e attuare le indicazioni costituzionali su di essa. Per superare ad esempio il disagio di fronte all'inutilità sostanziale di un dibattito sulla “separazione” delle carriere di fatto da tempo “risolto” mentre premono richieste quotidiane e ben più pressanti di giustizia in concreto. Per liberarsi dalla lite – incomprensibile per i cittadini e per gli utenti – fra magistrati e avvocati, superando i tecnicismi e ritornando alla realtà e alla sostanza dei problemi più urgenti; ma al tempo stesso evitando il fascino perverso e seducente di una giustizia soltanto robotica. Tanto più stupisce, questo lasciarsi imprigionare dalla polemica, se si pensa al paradosso della riforma: separare i “giudicanti” dai “requirenti” per poi riunificarne l'assetto disciplinare in quell'inedita Alta Corte. È il segno che i conflitti non hanno un senso, se non quello di lasciare la giustizia squassata dai venti.