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Gentile direttore,
L’associazione D.i.Re Donne in rete contro la violenza è tra le associazioni che hanno espresso preoccupazioni in merito alla sentenza della Corte di Assise del Tribunale di Modena e lo abbiamo fatto anzitutto con la profonda conoscenza delle dinamiche della violenza maschile sulle donne. Conosciamo parimenti la difficoltà del riconoscimento di tali dinamiche all’interno dei procedimenti giudiziari. Abbiamo letto le oltre 200 pagine della sentenza prima di esprimerci. Le nostre preoccupazioni attengono a quelli che riteniamo pregiudizi e stereotipi veicolati nella motivazione e non certo alla dosimetria della pena, o al bilanciamento delle circostanze.
Ci preoccupa come il punto di vista del femminicida venga fatto proprio dalla Corte D’assise, che è diverso, a nostro parere, dal descrivere o ricostruire, attraverso un’istruttoria, il pensiero, le convinzioni di chi commette il reato, ma acquisirlo e farlo proprio, di fatto giustificandolo sostenendolo e rafforzandolo. Quell’ “umanamente comprensibile” è una valutazione preoccupante anche se la Corte non ha riconosciuto l’attenuante della provocazione “in presenza della evidente sproporzione di condotte assertivamente agite dalle due donne all’atto del rientro presso l’abitazione famigliare e l’aberrante reazione dell’imputato”. Era necessario nell’economia della lunga motivazione aggiungere l’“umana comprensione”? O finisce per esprimere un comune sentire?
Ci preoccupa che manchi totalmente nella sentenza il possibile punto di vista delle vittime e forse anche una qualche compassione per la loro fine. L’oggetto delle riflessioni rivolte dall’associazione D.i.Re donne in rete contro la violenza non è riferito, quindi, alla condanna a trent’anni di Salvatore Montefusco, una pena severa, ma al ragionamento che si legge nella motivazione. Riconosciamo nella motivazione il meccanismo che porta a tante – troppe – archiviazioni in cui si parla di reciprocità e conflitto e non si riconosce l’asimmetria di potere.
Ci preoccupa leggere più e più volte il riferimento all’uomo che si è costruito la casa, l’imprenditore edile che tanto si è sacrificato e che manteneva la moglie e la figlia, perché a nostro parere evidenzia un pregiudizio radicato nei confronti del lavoro di cura che non essendo monetizzato viene occultato e finisce per tratteggiare le donne come mantenute.
I comportamenti che l’uomo aveva messo in atto negli anni di relazione, riportati nelle denunce sono stati ridimensionati e le minacce sono state giudicate “generiche” anche se l’imputato aveva la disponibilità di sei pistole e due fucili. Circostanza che le donne conoscevano. Ed infatti Gabriella e Renata Trandafir sono state assassinate. Erano o non erano fondati i loro timori?
C’è nella sentenza un passaggio che riteniamo esemplificativo. Laddove si smentisce che le donne fossero state limitate nella libertà di movimento si legge a proposito di Gabriela Trandafir “che avesse piena potestà di uscire in ora serale e notturna, tanto che l’imputato era stato indotto a pagare un investigatore per conoscere la destinazione delle trasferte post lucane della moglie” (p. 179). Permetteteci di interrogarci su quale concetto di libertà delle donne e quale del controllo coercitivo esprime questa affermazione.
Stupisce, ma non sorprende infine, che la Corte ponga l’accento sull’incensuratezza di Montefusco, ritenendo che se non fosse stato per le “nefaste dinamiche familiari” non avrebbe ucciso. Il femminicidio non viene commesso da criminali abituali ma quasi sempre da uomini incensurati, uomini “per bene” uccidono per non perdere il controllo sulla partner e attuare proprio quando avviene la separazione, un definitivo atto di sopraffazione.
Leggeremo ancora questa sentenza con molta attenzione, perché ci sono molti aspetti che meritano approfondimento. Nel rispetto del lavoro dei giudici e dell’iter processuale, le sentenze e le loro motivazioni possono essere criticate: sono pronunciate nel nome del popolo italiano, donne comprese.