Sette ottobre 2023, giorno di shabat, 6.29 del mattino, le sirene urlano nel sud di Israele, stanno avvertendo i residenti del lancio di alcuni missili dalla Striscia di Gaza. Un’abitudine nelle zone frontaliere, tanto la gran parte della popolazione non sembra granché preoccupata, molti si preparano a celebrare Simhat Torah, una festa ebraica.

Nessuno immagina quel che sta per accadere. Dieci minuti dopo i primi allarmi circa tremila combattenti delle brigate al Qassam, l’ala militare di Hamas, varcano il confine a bordo di pick up, motociclette, buldozer, deltaplani, parapendii a motore, alcuni procedono a piedi, tutti sono armati fino ai denti come un enorme squadrone della morte. È ufficialmente iniziata l’operazione “diluvio di al Aqsa”, il più sanguinoso attacco avvenuto sul territorio israeliano dalla creazione dello Stato ebraico. Il peggior incubo di Israele, la sua paura più ancestrale si è materializzata.

Ci sono voluti due anni di pianificazione certosina per stabilire ogni passaggio, il momento in cui sfondare i varchi e disattivare i sistemi di sorveglianza, la definizione dei bersagli, il coordinamento dei blitz, ma è l’effetto sorpresa la natura inconcepibile dell’operazione che rende l’attacco devastante: in poche ore vengono trucidate 1139 persone, la maggior parte sono dei civili. È un pogrom, lo è letteralmente con buona pace di chi storce il naso davanti a questa parola di cui pensavamo esserci liberati, perché i terroristi invocando il loro dio gridano «morte agli ebrei!» e li cercano strada per strada, casa per casa e poi li ammazzano con ogni mezzo necessario, con esplosivi, armi da fuoco, mannaie, coltelli e poi infieriscono sui cadaveri che vengono mutilati, e straziati, riportati a Gaza come trofei in un tripudio isterico e nichilista. Morte agli ebrei dicono quella mattina i loro assassini.

Le postazioni dell’Idf a protezione dei varchi vengono sopraffatte con facilità irrisoria, distrutte le torri di guardia, eliminati gli scarni contingenti di soldati. L’unico carro armato che sta operando nella zona viene fatto saltare in aria da un drone. Israele è nuda, esposta alla determinazione omicida del suo storico nemico. Quella mattina nelle aree meridionali la presenza delle forze di sicurezza nel sud è ridotta, la maggior parte sta infatti operando in Cisgiordania perché, secondo l’intelligence di Tel Aviv, è lì che si concentrano i pericoli e le tensioni maggiori e di recente non ci sono state segnalazioni di attività sospette nella Striscia.

Il primo obiettivo colpito dai combattenti islamisti si trova a cinque chilometri dalla frontiera, nel deserto del Negev dove sta terminando il festival Tribe of Nova, una serata di musica elettronica a cui hanno partecipato circa 3500 tra ragazzi e ragazze rimasti a ballare fino all’alba. Il rimbombo delle casse che trasmettono gli ultimi scampoli di musica all’improvviso si intreccia e poi viene sovrastato dalle esplosioni dei kalashnikov in un contrasto straniante e mortifero: centinaia di miliziani raggiungono l’area del rave party a bordo di alcuni furgoni e iniziano subito a sparare raffiche contro la folla, inizialmente alla cieca, per abbattere più persone possibili, i ragazzi scappano in preda al panico, provano a nascondersi ma la zona è pianeggiante e la vegetazione scarsa, vengono cercati uccisi con sistematica ferocia come in un videogame sparatutto.

Praticamente un Bataclan nel deserto. Hanno anche bloccato le strade attorno, limitando le vie di fuga e smitragliando le automobili che tentano di trovare un varco. Trecentotrenta le vittime tra i partecipanti al festival, quasi tutti giovanissimi. Secondo le ricostruzioni delle autorità israeliane, in quelle ore concitate e sanguinose sette località passano sotto il controllo di Hamas, tra cui Nahal Oz, Kfar Aza, Magen, Be'eri e Sufa. Anche il valico di frontiera di Erez dopo l’uccisione di alcuni soldati e il rapimento di altri, finisce nelle mani dei terroristi, il che consente agli aggressori di entrare comodamente sul territorio israeliano dopo aver attraversato un tunnel di quattro chilometri. Gli squadroni delle brigate al Qassam si dirigono verso i kibutz che lambiscono la frontiera con la Striscia. Il primo a essere attaccato è a Kfar Aza dove gli abitanti e le poche guardie della sicurezza provano a difendersi. Invano.

La furia degli assalitori, equipaggiati e feroci come corpi di élite, non risparmia nessuno, donne, persone anziane, bambini: oltre duecento le vittime accertate. I più fortunati, che abitano nei vialetti più distanti dalle entrate sentono gli spari e riescono a rifugiarsi nelle stanze blindate presenti in ogni abitazione, diverse case sono date alle fiamme, il sangue macchia ogni cosa, l’asfalto delle strade, le pareti. Stessa identica scena nel Kibbutz di Be'eri dove le vittime sono “soltanto” 110 per l’arrivo sul posto di un contingente militare israeliano che trasforma l’assalto in una battaglia vera e propria disputata a colpi di artiglieria e di armi d’assalto. Per scacciare i terroristi l’Idf decide di bombardare il Kibbutz uccidendo anche alcuni dei residenti.

Poi altre dimostrazioni di forza come gli attacchi agli avamposti militari di Bahat, Nahal Oz e Re'im e l’irruzione in un commissariato di polizia di Sderot dove sono uccisi trenta agenti. Oltre duecentocinquanta il numero delle persone rapite e portate a Gaza city.

Sono i video di propaganda filmati dagli smartphone e dalle Go pro degli stessi miliziani a immortalare la mattanza. Li diffondono in tempo reale, sui social network; parallelamente alle richieste di aiuto ricevute su WhatsApp dalle famiglie degli abitanti dei kibbutz intrappolati nei rifugi delle loro case, trasmesse anche in diretta dalla televisione nazionale.

Catturati e mostrati con l'obiettivo di terrorizzare la popolazione israeliana, i video sono anche un singolare strumento di tortura psicologica, poiché è attraverso le immagini che le famiglie provano a identificare i propri cari di cui non hanno più notizie, cercando di indovinare il loro destino aspettando un segno di vita.

Alle 11.35 il primo ministro Netanyahu parla alla nazione dal quartier generale delle forze armate di Tel Aviv: «Siamo in guerra e vinceremo, i nostri nemici pagheranno un prezzo senza precedenti». Non una parola sulle vittime o sugli ostaggi finiti in mano ad Hamas. Non una parola sugli errori, clamorosi, del governo e dei servizi di sicurezza, incapaci di prevenire o semplicemente di fermare le milizie palestinesi. Solamente la cieca vendetta, lo spirito scomposto della rappresaglia che porterà l’apocalisse nelle strade di Gaza con quasi 40mila vittime in dodici mesi di bombardamenti e segnando la sorte di duecento ostaggi.