In questi giorni in cui, almeno stando alle pubblicità, tutti sembrano dover essere più buoni ed esprimere affetto in ogni manifestazione, molti sono i “rimossi” che nessuno o quasi sembra prendere in considerazione per esprimere un po’ di affettuosa vicinanza.

Viene allora in mente che proprio l’anno scorso, in queste giornate, la Corte costituzionale stava lavorando alla motivazione, che poi sarebbe stata pubblicata a fine gennaio, della sentenza n. 10 del 2024, presidente Barbera e redattore Petitti. Si tratta della decisione conosciuta come la sentenza sulla affettività in carcere. Una sentenza bella come di rado succede oggigiorno per la Consulta, che riconosce appieno il diritto all’affettività dei detenuti: non come concessione premiale o come “diritto” subordinato a un qualche comportamento, ma come diritto, pieno e insopprimibile, per ogni persona privata della libertà.

Diritto che non può essere limitato che per ragioni di sicurezza o di mantenimento dell’ordine e della disciplina o per ragioni giudiziarie riguardanti il soggetto imputato. Ma diritto pieno, al pari del diritto a nutrirsi o alla salute. Un diritto da riconoscersi tendenzialmente per tutti e fin da subito, fin dalla pubblicazione della sentenza. Unica esclusione – forse non giustificata appieno – per i soggetti a regime speciale (41 bis) o a sorveglianza particolare.

Impropriamente nei commenti alla decisione si è teso a ridurre la sua portata ad avere incontri sessuali col coniuge, col partner dell’unione civile o con la persona stabilmente convivente. Non di solo sesso infatti parla la sentenza, ed ha ragione. L’affettività, infatti, consiste sì nel rapporto sessuale, ma non solo in questo: fra due persone che si vogliono bene, vi sono mille momenti che difficilmente possono realizzarsi sotto lo sguardo di un piantone o di altri reclusi o di estranei in generale. È ben difficile, in tale situazione, anche solo sussurrarsi una parola affettuosa o darsi anche solo una carezza.

Sono momenti che implicano una totale intimità, fuori dalla portata di orecchi e occhi indiscreti. Per le orecchie, non ci sono problemi perché l’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario già prevede che i colloqui coi familiari non debbano essere ascoltati. Viceversa vale per gli occhi, perché la stessa norma prevede invece che tutti i colloqui avvengano sotto sorveglianza visiva. Dunque, i detenuti debbono – e sottolineo debbono – essere messi in grado di avere incontri col proprio coniuge o consorte in una stanza apposita, il più possibile somigliante a una stanza di casa nell’arredo e nella atmosfera, lontano da sguardi indiscreti. Ricostruire la sfera della affettività al pari della sfera culturale o del percorso di reinserimento: una componente essenziale per il detenuto che aspira, prima o poi (anche nell’ipotesi dell’ergastolo, per lo più), ad essere pienamente restituito alla società che si muove fuori dal carcere.

A un anno di distanza, come si è ottemperato alla prescrizione della Consulta? Si può dire che non si è fatto nulla, se non alcuni timidissimi esperimenti. L’affettività e i rapporti sessuali sembrano essere un tabù insormontabile. Si accampano motivi di carenza di spazi, di carenza di operatori e di guardie penitenziarie ad hoc, ci si lamenta che il ministero e i Dap regionali non indicano soluzioni concrete, ed è tutto vero. Ma è possibile che a un anno di distanza il dettato costituzionale della Corte sia rimasto inevaso, lettera morta? Sembra di essere tornati ai primi tempi della Consulta, quando si diceva che alcuni precetti costituzionali andavano bene in astratto, ma non nell’applicazione concreta. Ma era 70 anni fa.

Questa sentenza impone il riconoscimento di un diritto da subito, e indica anche i momenti di possibile iniziale mediazione: il diritto sarà esercitato non per tutti i detenuti contemporaneamente, e certamente in un primo momento saranno indirizzati verso la stanza dell’affettività i detenuti che hanno mostrato un grado insignificante di aggressività, per evitare possibili episodi incresciosi e susseguenti possibili responsabilità. Ciò per scongiurare che il detenuto appartatosi con coniuge o consorte non esprima la propria affettività bensì la propria aggressività. La sentenza indica tutte queste possibili difficoltà, ma esige che il diritto sia riconosciuto a poco a poco per tutti. Il ministero, il Dap, le direzioni degli istituti debbono farsene una ragione e scendere nel concreto di un diritto all’affettività che va riconosciuto a tutti i detenuti.

Buon natale a tutti, anche ai detenuti e ai loro affetti.