L’aggravante è un fatto occorso prima, durante o dopo la commissione del delitto che ne aumenta il disvalore, tanto da avere appunto come conseguenza un aggravio della pena inflitta o delle sue modalità esecutive. Messa così, sembra una cosa semplice, anzi semplicissima.

Se non fosse che il fatto “aggravatore” è indicato da una denominazione che ha generalmente un corrispondente a- tecnico nel linguaggio comune. Se in un discorso richiami l’idea della crudeltà ti capisce l’avvocato, ma pure il cittadino comune.

Quello che però il cittadino comune non afferra, almeno non con immediatezza, è che la crudeltà quotidiana è cosa diversa dalla crudeltà giuridica; più o meno come un avvocato alle prese con questioni di cui non si occupa mai dal punto di vista professionale.

Questo quadro, d’altro canto, non desterebbe sorpresa né produrrebbe conseguenze se le cose stessero nel senso ordinario, che cioè il cittadino comune provvede alle cose su cui ha competenza e l’avvocato perora le cause o, a tutto concedere, che l’uno e l’altro si intrattengano sulle cose che non sanno, parlandone davanti a un caffè.

Ma il senso ordinario delle cose – e qui ti volevo – oggigiorno sembra un poco smarrito. E così, se un giudice non riconosce l’aggravante della crudeltà in un caso in cui il carnefice ha trafitto la vittima con settantacinque coltellate, qualsiasi associazione di cittadini protesta a gran voce, perché, non è tanto la misura della pena a destare sconcerto (sempre di ergastolo in fondo stiamo parlando), ma l’idea stessa che qualcuno osi negare che una cosa così sia effettivamente crudele.

Fuor di celia: quello che accade attorno alla questione aggravanti e che è di per sé sintomatico di una generalizzata propensione a dire di cose di cui non si sa nulla o comunque molto poco, è il frutto di un corto circuito informativo, originato da narrazioni farlocche dei fatti del processo e della giustizia calate su di una collettività esasperata dall’idea del delitto piuttosto che dalla sua concreta realizzazione.

La “rivolta per l’aggravante negata”, insomma, certifica – se ve ne fosse ancora necessità – l’impoverimento del dibattito pubblico sulle cose del vivere collettivo. E la cosa triste è che questa depressione origina – almeno in parte – dalla rinuncia al ruolo di mediazione narrativa che chi informa dovrebbe avvertire invece come imperativo.

Da cosa questa rinuncia più o meno consapevole sia poi causata, non è facile dire. Ma, che si tratti di incompetenza (ancora si legge di “reato penale”, o “pubblico ministero che arresta” o che addirittura “rinvia a giudizio”) oppure della spasmodica necessità di accumulare click, resta il fatto che essa rappresenta il tradimento degli scopi di una funzione cruciale nella vita democratica, quella di informare appropriatamente; tradimento a cui consegue il riversare, su una collettività naturalmente votata all’enfasi, informazioni distorte e perciò buone ad alimentare tifoserie e dibattiti surreali.

Così, come per una partita di calcio o per una ricetta, ognuno sente il diritto di gridare la sua, perché, “signora mia, lo sanno tutti che nella carbonara la panna proprio non ci va!”.