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Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della deposizione di una corona di fiori sotto la lapide dell’On. Aldo Moro
Con quella gigantografia di Aldo Moro che lo sovrastava mentre parlava ai familiari delle vittime del terrorismo, peraltro reduce dall’omaggio in via Caetani alla sua memoria nel 45.mo anniversario della morte e del ritrovamento del suo cadavere a metà strada fra le sedi nazionali della sua Dc e del Pci ch’egli aveva portato due mesi prima nella maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale”; con quella gigantografia alle spalle, dicevo, era naturale pensare che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si riferisse anche o particolarmente alla tragica vicenda dello statista democristiano parlando dei “complici” impuniti del terrorismo. Che tanto sangue riuscì a versare negli anni di piombo fra stragi, agguati personali e feroci esecuzioni. Tale fu quella appunto di Moro, ucciso 55 giorni dopo il sequestro, e lo sterminio della scorta, con raffiche attorno al cuore studiate, come ha potuto accertare l’ultima commissione parlamentare d’indagine presieduta da Giuseppe Fioroni, perché l’agonia fosse la più lunga e dolorosa possibile.
“Frase choc a 45 anni dalla morte- Mattarella su Moro: “Complici nello Stato”, ha titolato Libero in prima pagina su un articolo in cui Filippo Facci, con l’aria di risparmiare al presidente della Repubblica l’invito a riferire in Parlamento su ciò che sa e non ha voluto o potuto riferire dettagliatamente, ha scritto che ora si potrà affermare che gli uomini dello Stato hanno ammazzato i cittadini dello Stato perché “lo sanno tutti e l’ha detto pure Mattarella”.
Si tratta naturalmente di un paradosso, come capita spesso a Facci di scriverne e dirne facendo storcere il naso anche al direttore di turno, che però glielo concede sapendo che il lettore può gradire. Eppure sotto sotto, lasciatemelo dire senza volere togliere nulla a nessuna di tutte le altre vittime del terrorismo e dei suoi complici occulti che Mattarella ha diligentemente citato nel suo intervento al Quirinale, anch’io ho avuto la sensazione che egli avesse pensato in particolare a Moro. Cui - è bene ricordare anche questo sul piano umano- la sua famiglia era particolarmente legata.
Il padre, Bernardo, ne era stato un ministro molto apprezzato e devoto, a tal punto da accettare senza fiatare il sacrificio chiestogli di rinunciare alla conferma, fra un governo e l’altro dei suoi, quando per ragioni interne di partito Moro dovette accontentare gli appetiti correntizi aumentati, quasi per compensazione, con la crescita politica della sua leadership. Anche il fratello di Sergio Mattarella, Piersanti, fatto uccidere dalla mafia nel 1980 alla guida della regione siciliana, era stato convinto e apprezzato moroteo.
Già un altro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, parlò una volta del tragico sequestro di Moro e del suo altrettanto tragico epilogo come di una vicenda tessuta da raffinatissime menti: espressone, questa, adoperata anche da Giovani Falcone nel 1989 commentando l’attentato sventato contro di lui, e i colleghi e ospiti svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehman, nella residenza estiva affittata all’Addatura.
Come si fa, Dio mio, a dubitare ancora, e tanto meno a lamentare la genericità dei richiami di Mattarella ai complici, che i terroristi avessero potuto disporre di aiuti esterni alla loro organizzazione sanguinaria - e che aiuti- nella preparazione del sequestro Moro e nella sua lunga gestione, protrattasi per quasi due mesi in una città come Roma? Una città grande di certo, ma non abbastanza, diciamo la verità, per spiegare la mancata scoperta del covo in cui era stato rinchiuso l’ex presidente del Consiglio, o della sua scoperta - peggio ancora- ma della mancata decisione di assaltarla, anche a costo della morte dell’ostaggio temuta umanamente dalla famiglia. Che aveva preteso dal primo momento una liberazione sicura e negoziata, rompendo praticamente col partito e col governo, al cui ministro dell’Interno Francesco Cossiga, salito a quel posto proprio per Moro, venne la ciclotimia per i sospetti, le accuse e quant’altro di non avere fatto abbastanza sia per prevenire il sequestro con una più accurata protezione sia poi per salvare la vita all’ostaggio.
Conosco e appezzo da tempo il magistrato Guido Salvini, espertissimo di terrorismo e consulente, non a caso, dell’ultima commissione parlamentare d’indagine già citata. Non più tardi dell’altro ieri, intervistato dal Quotidiano Nazionale che raggruppa Il Giorno, il Resto del Carlino e La Nazione, egli ha così concluso le sue riflessioni sul sequestro Moro e sul suo epilogo. “Molto probabilmente le istituzioni, il Comitato di crisi e gli uomini del suo partito, dopo che le brigate rosse annunciarono la piena collaborazione di Moro al suo interrogatorio potevano temere che avesse raccontato e scritto, anche in modo forzato, molto più di quanto effettivamente avvenuto, con conseguenze disastrose, se fosse divenuto pubblico, per il quadro politico interno e le alleanze internazionali. A quel punto Moro era politicamente morto. Più ancora che morto, era divenuto ingombrante. Poteva essere lasciato morire”.