PHOTO
PROCESSO STRAGE FERROVIARIA DI PIOLTELLO AULA DI TRIBUNALE
Succede spesso alle persone intelligenti e colte di trasferire una premessa ad un approdo diverso, piegando il ragionamento all’obiettivo cui tendono. Non stupisce dunque se, ancora una volta, il Prof. Mazza ha ribadito il suo pensiero contrario (ostile) alla Giustizia riparativa prendendo le mosse dalla terribile vicenda di Giulia Cecchettin (chissà perché si continua a richiamare Filippo Turetta quale protagonista di questa tragedia), sulla quale in questi mesi, e in questi ultimi giorni, si è scritto e detto tantissimo, quasi sempre cedendo al discorso da bar, senza cognizione e senza rispetto per tutte le parti coinvolte in questa disgrazia, figlia del gesto criminale e patriarcale di un giovane uomo.
Non è dunque mia intenzione aggiungermi alla lista di chi parla a vanvera, ed anzi ho apprezzato le considerazioni spese in premessa nel recente articolo pubblicato su questo giornale da Oliviero Mazza, laddove denuncia lo scivolamento del processo verso il crinale della vendetta. Del resto, qualche giorno fa, con parole chiare e responsabili si è detto (Verdolini) che “il diritto penale ha limiti precisi, serve a stabilire responsabilità, non a costruire pedagogie collettive. E se chiediamo al processo penale di colmare il vuoto culturale e politico della società, finiamo per confondere il ruolo del tribunale con quello della coscienza pubblica… la giustizia penale può punire, ma non può educare… oggi il diritto viene brandito come arma apotropaica, come soluzione, nelle aule”. Sottoscrivo.
Mentre scrivo ascolto per radio dell’ennesima condanna all’ergastolo (per un crimine orrendo), con il consueto commento (anche di avvocati) sull’esito: “Inevitabile”. Il diritto penale è intriso di violenza, e forse per questo risponde al male col male, la pena perpetua, e non può (ri) educare nessuno. Il vero cambiamento si gioca su un piano culturale.
Ma torniamo al nostro, secondo cui “il processo si è trasformato in un rituale di degradazione dell’imputato in funzione catartica per la vittima”. Così, invece di interrogarsi sul perché questo accada, su quanto la giustizia punitiva contribuisca a incrementare divisioni e conflittualità, afferma che “il diritto etico, il diritto penale emozionale sono alla base dell’esperimento, per ora incompiuto, della giustizia riparativa”, e arriva all’acme del ragionamento, che denunciando la “commistione tra diritto e morale”, evoca “il codice penale nazista” (il reato come ogni fatto contrario al sano sentimento del popolo – ciò che conta è la personalità del soggetto agente, non la lesione effettivamente cagionata, secondo Thierfelder e la teoria del tipo d’autore) come scenario. Un’enormità e un’indecenza, che si commenta da sola.
Per capire, provare a farlo, vale la pena ribadire che la giustizia riparativa è altro dal diritto penale, pur nutrendosi del valore dei precetti; nel diritto penale troviamo invece, sempre di più, il potere dello Stato, che diventa lo Stato del potere, intriso di violenza. Per spiegare, provare a farlo, ci aiutiamo con queste parole (Bartoli): “Avvocatura e scienza giuridica operano da sempre per limitare la violenza, e quindi il potere, ma proprio perché operano per limitare violenza e potere sono comunque connesse alla violenza e al potere, e quindi dipendono da essi”.
Non importa qui convenire su quanto sia diffuso questo rischio, quanto piuttosto denunciare un paradosso, secondo il quale lo splendore del supplizio in chiave post moderna consente ancora a tanti di sedersi allo stesso tavolo del perito settore urlando che no, non va bene, pur prendendo parte all’autopsia. Così, al capezzale del processo accorrono in tanti, per ascoltare l’epicedio e partecipare al rito consolatorio; ma siccome chi dispone di un pulpito da cui parlare non manca mai di farlo, e gli epicedi dicono di più su chi li scrive che su chi è morto, forse le parole che abbiamo letto tre giorni fa sono destinate a ripetersi, perché certo le occasioni non mancano.